Margin Call è un film da rivedere per capire la crisi finanziaria che devastò nel 2008 il sistema finanziario americano. Un tema che non smette di attirare l’attenzione di Hollywood. La ferita è profonda, e ad anni di distanza non si è ancora rimarginata. Oliver Stone ha addirittura tirato fuori di prigione il suo Gordon Gekko (protagonista di Wall Street, del 1987), Re della rapacità dell’era reaganiana, facendogli spiegare, con parole semplici, il significato autentico di bolla speculativa, titoli tossici, titoli spazzatura e derivati, nel recente Wall Street. Il danaro non dorme mai (2010).
Così come lo stile di Oliver Stone era rapido e incalzante, quello dell’esordiente J.C. Chandor, scelto per Margin Call (2011), è lento, riflessivo e compassato. La storia prende avvio dall’alto. Ultimi piani di un grattacielo di New York. Lì, a contatto con le nuvole, i flussi finanziari decollano. In uno spazio limitato di una banca che specula sul credito, con brutale freddezza vengono messi alla porta un bel po’ di dirigenti. Gli vengono concessi pochi minuti per raccogliere gli effetti personali, passare in cassa a ritirare il cospicuo assegno, a tornarsene a casa. Bisogna limare i costi.
Fra i licenziati, uno sta studiando lo stato di salute della banca. Ha intuito che non è più florido. Anzi, è sull’orlo del collasso. Ma deve mollare. Riesce però a passare la palla (la chiavetta con i dati) ad un giovane analista. Questi, un genio dei numeri, ingegnere spaziale prestato alla finanza, ci mette poco a disegnare il quadro da coma profondo. All’apertura della giornata di lavoro ci sono stati i licenziamenti. Verso le undici di sera l’analista ha scoperto il mare di guai sul quale è seduto……