La storia della devozione alla Madonna Incoronata del Rovo e della Parrocchia.
Trascritta dal libricino “Santa Maria del Rovo” da Bisogno Sara e Orlando Grazia.
La vasta e deliziosa vallata di Cava, nel suo angolo nord-ovest, alle falde del monte S. Angelo, è stata la culla di un culto novello alla Vergine. Chi percorre quei campi, insensibilmente declivi verso la via regia, subito scorge il bel Santuario della Madonna del Rovo, biancheggiante su di un rialzo pittoresco, tra il verde cupo dei pini, tenero dei pioppi e delle querce. Dista poco più di un chilometro dalla borgata di Cava; e la via che vi mena, per metà circa aperta e dritta verso occidente si piega poi al nord, nascondendosi fra gli alberi dei campi, premurosa di occultare ai visitatori fino all’ultimo momento, il caro tesoro che tutto in un istante rivelerà con la più gradita sorpresa. Voi attraversate il letto quasi sempre asciutto di un torrentello, percorrete con ansia l’ultimo tratto di strada, che solo ivi s’eleva alquanto; eppure non sospettate ancora che siete pervenuti. Ma ecco che la via inaspettatamente s’incurva a sinistra, piana, spaziosa, aperta, come il viale di un giardino, fra due molli tappeti di verzura quadrangolari, limitati a destra da un filare di pini, a sinistra da un vigneto. Distraetevi per un attimo dallo spettacolo stupendo della Chiesa, delle due montagne gigantesche che servono di sfondo, del cielo di viola che s’incurva su di essa: è alle vostre spalle Cava gentile, che io vi invito a guardare dalla spianata; è la corona orientale delle sue colline sorridenti nel sole; l’oltremare tenerissimo del golfo, laggiù a mezzogiorno, su cui si delinea S. Liberatore; di Pregiato, S. Lucia, Rotolo, pensosi tra il verde, Pregiatello inerpicantesi arditamente verso la vetta; mentre il Castello nel mezzo sorge dalla valle, solenne nel suo manto primaverile, come una piramide trasportata in un’oasi. Solo per un attimo ammirerete, giacché il Santuario vi attrae a sé silenzioso, mistico, dalle linee elegantissime. Oh, quella facciata della Chiesa, così semplice e così bella! Che delicatezza di disegno in quegli ornati che incorniciano la porta! E quel grazioso campanile a destra, e la piccola cappella dell’Oratorio a sinistra, e la modestissima canonica anche più a sinistra, seminascosta all’ombra del tempio! Che armonia di proporzioni e di colori! E come stacca mirabilmente il Santuario sul fondo bruno dei due monti, formanti un largo seno nell’unirsi alle sue spalle! Contemplate: solo la Croce dall’estremo pinnacolo, superando la cresta lontana dei monti, si eleva libera nel cielo. Se volessi più oltre solleticare il vostro senso estetico, o pio lettore, potrei descrivervi il mesto candore del sacro Tempio, quando nelle notti serene d’autunno l’avvolge in una trama d’argento la luna; o quando in Aprile, fra i mille profumi dei campi in fiore, i passeri intrecciano i loro voli d’intorno alla grondaia, mentre i fringuelli da un ciliegio o da un noce nell’estasi, cantano, cantano…. Ma non è qui che dobbiamo arrestarci: tutte le bellezze di questa campagna felice, tutte le voci di questo dolce idillio fra terra e cielo, non valgono una parola sola della Vergine, che nei silenzi mistici del Tempio dal suo trono marmoreo, sa toccare e consolare i cuori. Chi non vorrà venire a genuflettersi dinanzi all’immagine soave di S. Maria del Rovo? La piena di grazie aspetta i figli suoi: entriamo.
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Che pace in questa solitudine celeste! Sente leggiera di volare a Dio!
Leggiera perché il mondo esercitava su di lei una gravosa oppressione, e qui invece, si sprigiona da ogni vanità nella penombra sacra, meglio anche, dimentica tutto in un abbandono soavissimo, genuflessa a piè dell’altare di Maria.
Oh, qui si sperimenta ciò che confessa il Rousseau, che, dopo aver invano cercato la pace da per tutto, la trovò solo nel Tempio monastico del monte Valeriano. La Chiesa, costruita per le poche centinaia di contadini sparpagliati nei campi, fra Passiano e S. Martino, non è molto spaziosa; ma a quel che prometteva il frontespizio, corrisponde fedelmente nell’eleganza architettonica e nell’armonia dell’insieme. L’altare maggiore, in marmi finissimi, arieggia quello della Vergine di Pompei; sol che le dimensioni sono proporzionate alla Chiesa, e il tno marmoreo dell’Immagine è appoggiato al muro dell’abside, che così viene in parte a scomparire. Come l’altare, così ogni parte del santuario è stata lavorata con amore, e distribuita con finezza di gusto. In un occhiata voi abbracciate il tutto, e dovete rimanere assolutamente meravigliati. Ma è questa una Chiesa di contadini? E i fiori dell’altare, che ci avvolgono in un nimbo di fragranze, sono i fiori di campo? Quali dolcezze nelle note dell’organo liturgico, ergentesi su la porta unica del Tempio, specie se alcune voci ingenue di contadinelle vi ricamano sopra un cantico di Maria. Ave, Maria- solo voi sapete operare tali prodigi, ispirando nei cuori devoti lo zelo, con cui il vostro culto si va rivestendo di tenerezze pure e gentili, anche fra gli agricoltori, da per ogni dove; acciocchè quando l’anima ribelle sente la stanchezza della vita, in preda ai suoi dubbi ed ai suoi rimorsi, si fermi passando, a contemplare e meditare le opere della fede e dell’amore. Voi allora, o Madre, la compatite, e con sorriso di carità, rinverdendo la speranza appassita in fondo a quell’anima, la attraete in fondo al vostro altare, dove in ginocchio richiama alla mente e ripete la preghiera dei suoi anni innocenti- Ave Maria. Dopo di avervi condotto quasi per mano fino all’altare di S. Maria de Rovo, ho speranza che non vi sarà discaro leggere la narrazione dei fatti svoltisi, in quest’ultimo mezzo secolo intorno a quell’Immagine dolcissima. Voi assisterete ad una successione mai interrotta di prodigi, con cui Maria ha fatto nascere, ha sorretto, promosso, consacrato il nuovo culto; e l’opera sacra di questi contadini vi apparirà così strettamente intrecciata con gli aiuti della Vergine, da non poter più determinare, dove l’una finisca e gli altri incomincino.
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Nel primo trentennio del secolo XIX, la contrada ora denominata del Rovo era abitata da gente rozza, affatto ignara della vita religiosa. I più vecchi tra i contadini, quando rammemorano la loro antica ignoranza e barbarie, mandano un sospiro di gratitudine alla Vergine che li ha soccorsi. Nascevano discordie tra famiglie, e spesso si arrivava a vendette atroci ed al sangue, perché mancava chi si interponesse. Nelle supreme necessità, se qualche persona influente nelle vicinanze, ostentando sentimenti generosi, offriva protezione, calcolava sull’imperizia dei suoi protetti, per cavarne quattro o cinque volte il proprio tornaconto. Le coscienze s’abbandonavano ad una pesante inerzia per la lontananza dalla Chiesa parrocchiale, dove non si andava se non di domenica, e alla sola messa. Vivere per loro voleva dire lavorar come bestie da soma, con la fede divenuta sterile nell’anima, con la speranza obliata in un cantuccio del cuore: di guisa che nei dolori e nella morte non sapevano domandare ai sacramenti una consolazione e una forza. Alla distanza dalla Chiesa s’aggiungeva, la mancanza di vie praticabili nei giorni di pioggia o di neve, quando i sentieruoli campestri divenivano pozzanghere e fango, togliendo ai sacerdoti più volenterosi la possibilità di soccorerli. Oh, quanti vivevano senza conoscere la prima pagina del catechismo, e quanti morivano senza essersi mai comunicati, senza aver mai pregato!
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Il primo impulso verso un’ età migliore fu dato da una giovanetta, Teresa Senatore poco più tardi del 1830. La pietosa contadina si commosse alla mancanza di educazione religiosa, in cui crescevano i figli degli agricoltori, e pensò d’aiutarli con l’insegnare loro quel poco che conosceva di dottrina cristiana e di pratiche devote. Ma v’era bisogno di un luogo, dove riunire i fanciulli, e la sua piccola casetta era insufficiente. Allora adattò, come seppe meglio, sotto la volta della sua scala un’immagine di Maria, dal titolo notissimo di Mater Domini; e davanti a quella specie di nicchia, facendo sedere i piccoli uditori sopra un mucchio di pietre, nelle ore del mattino o del tramonto li istruiva, e conchiudeva la pia riunione con la recita del Rosario. Cresceva di fianco alla scala una folta macchia di spine, e l’industria infantile la pose a profitto per adorarne la cara Immagine. Fu portato il rovo di tutti i rami vecchi e contorti, mentre i virgulti giovani e flessibili furono piegati lungo il muro della scala, a formare un bell’arco di verzura su la rozza nicchia. Lo zelo della Teresa produsse i suoi frutti poiché i fanciulli, cresciuti in numero, e non contenti dell’Immagine in carta, chiesero un obolo ai loro parenti per acquistarne qualcuna in tela. La colletta diede la somma tenuissima di 15 carlini (lire 6,37), che furono consegnati al sacerdote D.Natale Senatore, con preghiera di adoperarsi lui pel quadro desiderato. Non passò molto, e si ebbe la piccola tela, opera del modesto pittore cavese, Vincenzo Meccia, che si contentò di così scarso compenso, perché devoto di Maria. Dopo qualche mese fu chiusa la nicchia con un cancelletto di legno, e le contadinelle, infilando primule, margherite di prato e rosolacci, ve li sospendevano in lunghe corone. Così continuò il culto fino al 1849. Quando Teresa, costretta a mutare abitazione, si separò a malincuore dai cari fanciulli e dalla carissima Immagine. Il signore però non permise che un’opera santa così bene iniziata, rimanesse interrotta, ed ispirò alla sorella di Teresa, Gelsomina, l’idea di continuare.
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Fu costei quella vecchia ottantenne, da quasi tutti conosciuta in Cava e nei dintorni, ed amata con un affetto che rasentava la venerazione. Essa con solerzia infaticabile, come ape industriosa, raccolse le oblazioni per l’edificazione del Santuario, nelle vicine città di Salerno, Maiori, Vietri, Amalfi: essa educò per la gloria del Signore un giovanetto di quella contrada, e con i suoi sacrifizi ne formò il mite e zelante Rettore del sacro Tempio: pregò mille volte la sua Madonna per tanti che si raccomandavano alle sue orazioni: da lei infine parecchie persone, fra cui anche chi scrive questi cenni storici, ebbero prove di un’ intuizione mirabile. Voi la interrogavate sul futuro o su fatti contemporanei ignoti, e Gelsomina con una perspicacia che la sua semplicità non faceva sospettare, vi leggeva nell’animo, se era vana curiosità la vostra, o un vero bisogno di conoscere. Nel primo caso diveniva severa, di una severità nuova pel suo volto sorridente, e si chiudeva in un mutismo strano: nel secondo i suoi occhi trasognanti si animavano di una certa fosforescenza, ed essa rispondeva in una maniera nè troppo vaga nè troppo precisa. Poi sviava subito l’attenzione dall’argomento, e non ricordava più ciò che aveva rivelato, come se avesse parlato in un minuto di incoscienza. Mi si dirà che era un presentimento razionale? Ma come si può presentire il futuro, senza conoscere, come spesso avveniva alla Gelsomina, i fatti da cui, ammessa anche possibile la deduzione logica, dovrebbe scaturire quel futuro? Si aggiungerà che era una chiaroveggenza isterica?- eppure Gelsomina non fu isterica. Direte forse che era una forma nuova di telepatia? Ma la categoria di fatti, che questa parola fin ora ha denotati (fatti, del resto fatti su cui la psicologia non ha pronunziato la sua ultima parola), riguarda l’intuizione del lontano nello spazio, non del lontano nel tempo.
Finchè la scienza non avrà dato una ragione sufficiente del fenomeno, noi rimarremo nella convinzione, che fu una grazia singolare della Vergine del Rovo.
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Gelsomina dunque a 28 anni si consacrò al culto novello, e l’entusiasmo, con cui diede i primi passi sulla via tracciata dalla sorella, non venne meno mai più. Con lei l’Immagine sacra cominciò a denominarsi del Rosto, e il numero dei devoti a crescere, perché ai fanciulli radunati già da Teresa, vennero man mano ad unirsi, i fratelli, i genitori, tutti. Nei dì festivi era uno spettacolo edificante veder dai campi più lontani accorrere una folla, che si sedeva su pietre, o su travi o per terra lungo una siepe, e recitava con Gelsomina il Rosario. Intanto l’inverno si avvicinava, e le sacre radunanze, con vivo dolore della zelatrice e dei fedeli, dovevano sospendersi; sicchè nacque spontanea nella mente di Gelsomina l’idea di erigere un’ edicola, in cui recitare il Rosario con i suoi fanciulli, ed istruirli anche nei giorni piovosi. Anzi tutto ella s’aprì con i devoti proprietari di un fondo lì daccanto, signori Potenza, che, lieti di promuovere il culto nascente, lasciarono sperare protezione e sussidi all’occorrenza. Allora manifestò ai fedeli il pio desiderio, ed il consenso fu unanime, tanto che dopo pochi mesi s’era messa insieme una somma sufficiente per l’edificazione. Nel 1853 il Tempietto fu terminato e col permesso del Vescovo Fertitta, il giorno 17 maggio, una processione di contadini e signori cavesi accompagnò il venerato quadro, che il sacerdote napoletano D.Francesco dei marchesi Potenza traslocò dalla nicchia nella Chiesetta. Ciò diede al bel culto un incremento nuovo: continuò ad aumentarsi il numero dei fedeli, si rese più viva la divozione di ciascuno, e Maria largheggiò in grazie con essi. Come era prevedersi, le oblazioni non si lasciarono desiderare, e Gelsomina le raccoglieva, davvero contenta, perchè già maturava l’idea di riedificare il Tempietto, quando le sue dimensioni (m. 2 ½ per 4) fossero divenute insufficienti. Assai presto i fedeli si trovarono a disagio nell’angusta edicola; ma pure trascorsero cinque anni, rimediando alla meglio in quel breve spazio, prima di por mano al nuovo edifizio. Finalmente nel 1858 si abbattè il Tempietto, e se ne eresse uno più ampio del doppio, che, adibito in seguito per la Confraternita dei Terziari, anche oggi si visita volentieri per la correttezza delle proporzioni e delle linee, e per una certa delicatezza con cui sono lavorati gli stucchi della volta. Ivi si ricominciarono con maggior fervore le riunioni serotine di fedeli per la comune preghiera; e, venuta la primavera, tutti mostarono il desiderio di consacrare, nella maniera più degna, il mese dei fiori a Maria. Gelsomina, ormai dedita totalmente al servizio della Vergine del Rovo, era gongolante di gioia; e, fatta apprendere qualche sacra canzone alle sue contadinelle affidò al giovanetto Alfonso Apicella (non ancora chierico) l’incarico di leggere la meditazione quotidiana del mese. Oh, come trionfava la fede in quei cuori vergini! I campi venivano spogliati dei loro fiori umili, per adornare la dolce Immagine e l’altare: in quelle sere era un entusiasmo, un’elevazione la comune preghiera, era una festa il ritorno a casa, lungo le siepi fiorite, al chiaro di luna. Le contadinelle procedevano cantando, e gli echi delle balze più lontane ripetevano dintorno le laudi d’amore a Maria.
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La consistenza che andava acquistando quel culto campestre, e la gran macchia di rovi che rivestiva dell’antica cappella la facciata, della nuova le spalle, avevano l’aria di prodigio per i vicini e per i lontani, i quali affluivano finanche da Salerno e dalla costiera amalfitana, fiduciosi, implorando grazie. Alle grazie alla riconoscenza dei devoti rispondeva con i doni, e fra denari e oggetti d’oro Gelsomina in tre anni accumulò 500 ducati (lire 2125), patrimonio bastevole per la celebrazione di una messa festiva. Il Vescovo, saputolo, si mostrò lietissimo di darne il permesso, e il giorno 7 maggio del 1861 si vide per la prima volta un sacerdote, il Can. D. Filippo Catone, ascendere l’altare di Santa Maria del Rovo. Primo a comunicarsi in quella solennità fu l’Apicella, che nello stesso anno vestì l’abito talare, per essere, dopo un quinquennio di seminario, il sacerdote di quel Santuario e della contrada. A quel punto pare che la Gelsomina avebbe dovuto dirsi contenta e riposare; ma la sua Madonna del Rovo la chiamava ad una meta più lontana e più alta ed ella mostrava ogni attitudine per corrispondervi. Infatti esplicava uno zelo infaticabile: insegnare il catechismo, badare alla nettezza della Chiesa ed alle esigenze del culto, raccogliere offerte per i lavori a venire, continuare tutte le pratiche devote da sola, mentre il chierico Apicella era nel Seminario; e nello stesso tempo correre alle città vicine, per propagare il giovine culto fra le famiglie più distinte, dei Civale, dei Iannicelli, dei Giannattasio, dei Ricciardi, dei Conforti e di cento altri; e da pertutto pronunziare nella sua semplicità parole consolatrici, dare speranze, promettere preghiere ai tanti bisognosi del corpo e dello spirito. Ecco in breve l’opera molteplice di quella contadina, la cui unica scienza era un amore confidente verso Maria. In lei abbiamo visto ancora una volta, quanto sia vero ciò che scrisse S. Paolo: “Dio elegge la debolezza per confondere la forza, l’ignoranza per confondere la sapienza”.
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Nel 1866 D.Alfonso Apicella fu consacrato sacerdote, ed assunse lui la direzione di quel movimento religioso. Introdusse l’omelia domenicale; iniziò nella chiesetta una serie d’istruzioni serotine ai contadini, insegnando il catechismo e informandoli dei doveri domestici, quasi del tutto ignoti; aggiunse alle antiche pratiche devote la Via Crucis in Quaresima, che non ha tralasciata mai; e finalmente nel 1870 fondò una Pia Unione delle Figlie di Maria che nel 1872 fu riconosciuta con apposito Diploma della Curia di Roma. Tali innovazioni produssero risultati splendidi: dopo qualche anno, il culto della Madonna del Rovo era divenuto l’entusiasmo di tutto un popolo, che là trovava una sorgente di vita novella. Ma come si poteva proseguire con una Chiesa così piccola relativamente ai fedeli numerosissimi? Si doveva dunque, dopo tante fatiche spese intorno a quel Tempietto, tornare daccapo? E chi avrebbe fornito i mezzi, per dare alla nuova chiesa proporzioni tali da evitare una futura riedificazione, nel caso che il numero fosse cresciuto ancora? Qualunque persona avrebbe segnato in questo serio ostacolo il suo non plus ultra: non così Gelsomina. Che anzi la umile contadina, resa ardita dalla sua fede, deliberò col sacerdote Apicella di mettersi all’opera, senza indugio: ed una splendida idea, che fu certo un’ispirazione della Vergine, li indirizzo sulla via da seguire. I campi dintorno, oggi solcati da piccoli corsi d’acqua, e forse in un’ epoca remotissima inondati da grandi alluvioni, presentavano qua e là, specie lungo il letto dei torrentelli, grosse pietre calcaree, o sporgenti dal suolo, o appena nascoste da un piccolo strato di terra, si poteva quindi scavarle, e preparare con esse il materiale della futura Chiesa. I proprietari dei campi ne avrebbero dato il permesso; i giovani contadini, di sera, dopo i lavori agricoli, e nei giorni festivi, avrebbero prestato le loro braccia; Gelsomina innanzi a tutti avrebbe dato l’esempio; e il sacerdote avrebbe regolato il trasporto delle pietre, sorvegliato, ed anche aiutato all’occorrenza. La prossima domenica, dall’altare fu comunicata al popolo la santa deliberazione, ed un fremito di letizia l’accolse. Nessun genitore s’oppose: anzi, volendo accorrere finanche le contadine, fu stabilito che il lavoro si sarebbe alternato fra gli uomini e le donne. Allora il sacerdote si presentò a Mons. Carrano, per domandare il permesso della nuova fondazione, ed invitarlo a benedire la prima pietra; ma qui l’aspettava una prima amarezza. Il vescovo prudentemente gli domandò: Quale è il fondo cassa? – Niente! – E tu senza denari vuoi costruire la Chiesa? – Monsignore, la Chiesa non debbo farla io, se la farà la Madonna. Il vescovo non aggiunse parola, e il sacerdote se ne partì rattristato, ma non isgomentato. Quella stessa domenica chiamò i contadini, e pose mano all’opera.
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Per le vicinanze, dovunque trovavano un sasso, lo rompevano col piccone, o con la mina se troppo grande, e lo trasportavano presso il Tempietto. Vi furono mesi, in cui, tutte le notti, i contadini rinunziarono al sonno, tanto necessario dopo le gravose fatiche della loro giornata e spesero, nel raccoglier pietre, ore ed ore. Alle volte nelle sere rigidissime d’inverno, al chiaro di luna o con le lanterne, le contadinelle scalze, in lunghe file, volavano per quei viottoli, giulive, senza avvertire il freddo o la stanchezza; e, con i grossi pesi sulle spalle, cantavano le sacre canzoni, tanto teneramente che chi di lontano le ascoltava, nelle tenebre, provava una dolcezza indefinita. Nei giorni festivi non si lavorava di sera, ma o nelle ore antimeridiane, o nelle pomeridiane; e spesso, facendoli riposare, il sacerdote saliva su di un mucchio di pietre, e con un sermoncino li infervorava, assicurando il Paradiso a chi s’adopera per glorificare Maria. Ad intervalli, si lavorò in questo modo per cinque anni – dal 1870 al 1875 -, e si accumulò un enorme mucchio di pietre calcaree, tale da sembrare sufficiente per l’edificazione. Il Vescovo venendo a conoscenza di questi grandi preparativi, fatti a sua insaputa, trovò la cosa incredibile, o per lo meno esagerata, e andò di persona a vedere. Era il 26 agosto 1875, e una folla di fedeli entrava nella Chiesetta per la novena della Madonna, la cui festa doveva celebrarsi tre giorni dopo, nella domenica. L’arrivo inaspettato del vescovo destò una meraviglia, specialmente quando, dopo aver pregato la Madonna, chiamò il sacerdote, e volle esaminare il sito, dove poteva sorgere la Chiesa. Quivi il Vescovo approvò ogni cosa, lodò la tenacia di propositi nel Rettore della Cappella, ammirò la pia operosità degli agricoltori; ed il giorno dopo firmò il decreto, col quale autorizzava l’Apicella all’edificazione della Chiesa. Sicché la domenica seguente fu celebrata una doppia solennità: la consueta in onore di S. Maria del Rovo, e la straordinaria nel gettare la prima pietra del Tempietto futuro, che fu benedetta dal Vicario della diocesi Can. Catone. S’incominciò dunque a cavar terra per le fondazioni, e Gelsomina, con pazienza ed alacrità prodigiosa, correva per le case di quanti signori conosceva, domandando elemosine per pagare i muratori. Ma, scava e scava, passarono interi mesi, e il fondo solido, su cui si sarebbero basate le fondamenta, non si trovava. Finalmente risuonò sotto il piccone uno strato roccioso, ma niente niente meno che a ventisette palmi (metri 7, ½ ) di profondità. E dire che quell’immenso fossato, largo, palmi sei (metri 1, 2/3), e lungo per un circuito di palmi 216 (metri 58), ora doveva essere colmato! Un altro al posto dell’Apicella si sarebbe perduto d’animo; egli invece arditamente comandò di cominciar l’opera di muratura. Passò un mese, tutte le pietre accumulate negli anni precedenti, e che parevano bastevoli per l’intero edifizio, terminarono; ma si era ancora ad una considerevole profondità. Certi amici del sacerdote, che, pur dubitando dell’impresa, a cui egli si era accinto senza mezzi e da solo, avevano sempre taciuto per prudenza, ora lo pungevano con motti e parole amare. Ai quali Don Alfonso, fidando nella Madonna, rispondeva con un sorriso: Ed io vi dico che, se non avessi cominciato ancora, proprio or che mi manca tutto, sarei disposto a cominciare!
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Intanto si dovette sospendere, perchè era esaurito il materiale. Il torrentello, li daccanto, chiamato Gargarallo era stato rifrugato di cima in fondo, i campi dintorno erano stati ricercati accuratamente; ma non presentavano più traccia alcuna di pietre. Il sacerdote però, sicuro di aver secondato la volontà della Vergine, non faceva che pregarla, da Lei sola aspettando lumi e soccorsi; né le sue speranze andarono deluse. Dopo pochi giorni gli si presentò il contadino Gennaro Armenante per dirgli che anni a dietro, nello scavare ad un certo punto del suo campo, ricordava di aver trovato un enorme macigno, e che avrebbe permesso al tagliapietre di andarlo a minare. Non si indugiò un istante, e si poterono così ripigliare i lavori di fondazione, con gioia di tutto la contrada. Sotto il primo sasso ne fu trovato un secondo egualmente grossissimo, e poi un terzo; di modo che arrivò l’epoca della seminatura, e il campo non poteva essere coltivato, in parte per i mucchi di pietre che l’ingombravano, in parte per l’ampia fossa, dove lavorava il tagliapietre non ancora ricolmata. Il contadino mostrò il proprio malcontento al Sac. Apicella, e disse che non poteva attendere più oltre. Era sabato e il sacerdote promise di accontentarlo nel dimani. La domenica infatti nella Chiesetta al solito gremita il buon Rettore, conchiudendo l’omelia rivolgeva a tutti un preghiera: “Le altre volte, egli diceva, hanno lavorato, o soli uomini, o sole donne; ma oggi dovendosi senza indugio sgombrare dalle pietre il campo dell’Armenante, è necessario che vengano tutti, finanche i vecchi ed i fanciulli”. Non appena finì la messa, gli agricoltori, obbliando qualsiasi altra cura, tornarono in fretta a casa, smisero gli abiti di festa, ed accorsero con tanto slancio al santo lavoro, che il Rettore della Chiesa nel narrarmelo dopo 25 anni, non poteva fermare le lagrime. Più di cento persone lavoravano, incoraggiandosi l’un l’altro. Arrivò il mezzogiorno, ma nessuno abbandonò il suo posto per andare a desinare. Non passò il pomeriggio, e il campo fu ripulito ed appianato, come meglio si poteva desiderare. Solo allora quel popolo d’agricoltori si ricordarono di aver fame, ed il loro sacerdote li accomiatò, benedicendoli in nome di Maria. Superate le difficoltà delle fondazioni, che, con interruzioni continue, durarono per ben tre anni, e cresciuto il numero degli oblatori, gli animi si aprirono alle più rosee speranze. Infatti l’opera proseguì con lodevole alacrità, e senza incontrare ostacoli degni di nota, mentre il devoto Michele Accarino dirigeva saggiamente e gratuitamente, e il Sig. Francesco Civale costruiva lo splendido altare di marmo finissimo, a proprie spese. Nel 1878 non esistevano del Tempio che le fondamenta; cinque anni dopo e precisamente il 14 di giugno del 1883, il Vescovo D. Giuseppe Carrano entrava nella novella Chiesa per benedirla. Chi sa narrare la gioia degli agricoltori, nel veder finalmente coronata la loro devota operosità? Erano tutti in Chiesa ad ascoltare la messa di ringraziamento, che il Vescovo celebrò in onore della Madonna del Rovo, e le affettuose parole, con cui egli conchiuse il commovente rito. Verso il tramonto la Confraternita dei Terziari, istituita il 17 del mese antecedente, vestì per la prima volta le lane di S. Francesco; e si portò la venerata Immagine in solenne processione per quei campi, prima di elevarla sull’altare maggiore del nuovo Tempio, nella preziosa nicchia che l’aspettava. Non vi fu occhio che non piangesse; e si narra che il Sindaco Giuseppe Trara-Genoino, di preclara memoria, intervenuto alla festività, decise, in quel giorno e dinanzi a quella Chiesa di proporre in Consiglio e di promuovere la costruzione delle lunghe strade, che percorrono oggi la contrada per circa quattro chilometri. I tre giorni che seguirono, furono un vero trionfo per S. Maria del Rovo. Le primarie dignità ecclesiastiche dell’Arcidiocesi di Salerno e della Diocesi nostra vennero ad ufficiare ed a predicare, nel triduo solennissimo. Un’ orchestra con egregi cantanti nella Chiesa, la banda cittadina e una banda militare fuori all’aperta campagna, ricche luminarie sospese come merletti di luce fra gli alberi, fuochi artificiali, salve di mortaletti: niente insomma fu dimenticato per glorificare degnamente la Vergine, e dar sollievo agli spiriti stanchi delle lunghe fatiche. L’antica cappella questa volta non fu abbattuta, ma messa in comunicazione col Tempio, fu destinata a luogo di riunione per la Confraternita dei Terziari.
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Con egual zelo nel 1886 costruirono la sacrestia con due stanze superiori, e nel 1890 innalzarono il bel campanile. Però si dovette aspettare cinque anni, prima che la già vecchia Gelsomina raccogliesse elemosine bastevoli per la fusione delle campane: nel 1895 fu invitato l’artista Ripandelli di S. Angelo dei Lombardi. Questo comprò subito il metallo opportuno, e si pose all’opera, assicurando che la prossima festa sarebbe stata allietata dal suono delle nuove campane. Ma all’antivigilia della fusione il Ripadelli chiama il Rettore, e gli palesa i suoi timori sull’insufficienza del metallo. Il povero sacerdote ne fu costernato, e sull’istante non sapeva a quale partito appigliarsi. Pur bisognava prendere una risoluzione, perchè il giorno fissato per la festa era vicinissimo; ed egli andò a pregare la sua Madonna del Rovo. Viene la sera, ed egli compie le solite funzioni del mese mariano, e poi espone al popolo i timori del Ripandelli, facendo appello alla loro carità. Oh, i pii agricoltori di S. Maria del Rovo, per cui si vide rinnovato il prodigio del deserto, quel giorno, quando si dovette costruire l’Arca! Il dimani non aspettarono che nascesse il sole; all’alba erano già parecchi dinanzi alla Chiesa con caldaie, padelle e quanti oggetti di rame avevano potuto sottrarre alle loro cucine; e poi, monete fuori corso fino a sette chilogrammi, pettini ed altri oggetti d’argento, orecchini ed anelli d’oro, e cento altre cosucce preziose. Basti dire che si procedette alla fusione, e, con sommo stupore della folla ivi convenuta da ogni parte del metallo avanzarono 92 chilogrammi. Dopo qualche giorno il nostro Ecc.mo Vescovo Izzo, assistito da Canonici e Sacerdoti, benedisse le campane, esposte per la circostanza in mezzo alla Chiesa ed inghirlandate di fiori campestri. Secondo il rito, le campane si chiamarono coi nomi di S. Maria del Rovo e di Immacolata, ed ebbero per madrine due devote signorine della famiglia Cirillo di Cerignola che lasciarono in omaggio alla Madonna ricchissimi doni. Come dodici anni prima, per la benedizione della Chiesa, così anche ora fu un triduo fervorosissimo in onore della Vergine. Io non potrò mai dimenticare l’entusiasmo della prima sera. Si cominciò dal cantare l’Ave, Maris Stella; poi l’illustre oratore, Mons. Princi pronunziò uno dei suoi più affettuosi discorsi, che commosse tutti. La sua parola scendeva al cuore, dapprima placida, poi elevantesi dolcemente in un’ascenzione lirica; e in ultimo scoppiò quasi inno altissimo di lode e d’invocazione, di gloria e di preghiera. Noi stavamo là incantati, rapiti, e non ci avvedevamo che era giunta l’ora sospirata dell’Ave Maria. Quando ecco l’oratore ridiventa tenero, soave, e, volgendosi all’Immagine, in un impeto d’amore intona dal pergamo la Salutazione Angelica. Un coro d’orfanelle risponde dall’organo, cantando con voce d’angeli, mentre le campane per la prima volta mandano il virgineo saluto ai campi ed ai monti benedetti di Maria…. Vi siete mai domandato, perchè, nei troppo rari istanti della letizia pura ci spuntano sugli occhi le lagrime come nei giorni delle afflizioni? Sono veramente inaccessibili i misteri del cuore!……. Nelle sere seguenti sempre Dignitari Ecclesiastici ufficiarono all’altre, sempre l’insigne Mons, Princi ascese il pergamo.
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Ormai il Santuario era Fornito del necessario per l’esercizio del culto; solo si deplorava la meschinità dell’organo e la mancanza degli altari laterali. Ma non passò molto che si provvide anche a questo. Nel 1899 fu affidata la costruzione di un organo liturgico alla nota Fabbrica Fedeli di Foligno, e nella domenica di Quinquagesima del 1900 se ne fece l’inaugurazione. S. E. Mons. Izzo fu lieto di venirlo a benedire, poi celebrò il basso Pontificale, in ultimo rivolse paterne parole di occasione agli agricoltori, e concluse con la benedizione del Santissimo. Dopo l’organo si sono eretti due altari marmorei di elegante fattura, che occupano una terza parte delle pareti laterali, uno a devozione del pio e caritatevole Signore D, Vincenzo Pisapia di Cava, l’altro dell’ottimo generoso D’amico anche di Cava, che col Pisapia conosce a prova quanto valga la protezione della Madonna del Rovo. Di lì a qualche anno fu invitato il pittore cavese, prof. Raffaele Apicella, per una vasta tela, raffigurante il Signore che disvela il suo cuore a S. Vincenzo e a S. Rosa genuflessi in adorazione, ed il valoroso artista disimpegnò magistralmente il suo compito, a spese dello stesso Pisapia. Poco dopo lo stesso, il Prof. Pietro Vollaro di Napoli, discepolo del Morelli, componeva un dipinto di equali proporzioni, con la severità d’un’arte veramente cristiana, a spese di Gennaro Siani di Passiano. Il soggetto del quadro è la morte di S. Giuseppe, fra Gesù che siede al capezzale e lo sorregge e lo conforta, e Maria genuflessa dal lato opposto del letticciuolo che prega. Un Angelo a piè del Santo bacia il simbolico bastone fiorito; un altro Angelo appare in alto fra le nubi. Ormai il Santuario era completo; e poiché ricorreva il 50° anniversario dell’istruzione del nuovo Culto, e precisamente del giorno in cui la sacra Immagine fu esposta la prima volta su di un altare, vi fu una grandiosa festa con triduo e processione solenne pel Borgo e per Passiano. Fu vista allora piangere la buona Gelsomina, e ripetere la commovente preghiera del vecchio Simeone: “Ora chiamami, o Signore, nella celeste pace; i miei occhi hanno visto, e ha vissuto abbastanza la serva della Madre tua”. Il Signore la esaudì : poco dopo moriva. Donna mirabile, vergine operaia dell’Evangelo, che portasti sempre alta e luminosa la lampada della fede in attesa dello Sposo divino; anima pura e forte come diamante, che passasti fra gli ostacoli serenamente sicura della vittoria finale della tua idea; occhi sempre accesi e sfavillanti d’una mistica vita; volto soave ed infantile, su cui l’ala del tempo pur segnando le rughe senili, aveva rispettato l’angelico sorriso d’una giovinezza perenne! Da due giorni s’era partita l’anima bella per i regni della madre sua, ed il labbro conservava ancora l’espressione candida dell’innocenza: mi accostai religiosamente, e, staccando la vecchia mano inerte, che tanti fiori e tante elemosine aveva raccolti pel Santuario suo, la baciai, quella mano sacra, come un figlio; e mi parve di baciare una reliquia. Poi piangendo m’inginocchiai e pregai, ah, non per lei, così santa, ma per noi che non avremmo vista più presso quell’altare il profilo mistico di Gelsomina, l’ancella e la messaggera di S. Maria del Rovo, mai più.
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Sapendo di numerose grazie ottenute in Cava e fuori per intercessione di S. Maria del Rovo, venne al nostro Vescovo la santa idea di promuovere l’Incoronazione dell’Immagine. All’Apicella parve un’illusione la parola del Presule, perché non ignorava che, fra le condizioni indispensabili ad un’Incoronazione, si richiedeva l’antichità del Culto. Il pio Vescovo dal silenzio del buon Sacerdote comprese, e soggiunse: Sarà un tentativo. Furono raccolti in vari fogli alcune delle grazie prodigate in quel Santuario, si premise una supplica con una fervida commendatizia vescovile alla S. Sede si aggiunse una storia abbastanza diffusa del nuovo culto, ed tutto fu mandato al S. Padre. Dopo un mese giungeva al Vescovo da Roma il Papale consenso. E’indescrivibile la gioia, con cui accolsero il fausto annunzio Zelatore ed i devoti. Si affrettarono i copiosi e costosi preparativi: due corone d’oro, per la Madonna e pel Bambino graziosissimo, che le è tra le braccia; una gran cornice d’argento per l’Immagine, avente agli angoli quattro artistiche teste d’angeli; il ricco vestiario della nuova Confraternita, che si sarebbe fondata il giorno stesso dell’Incoronazione (notevoli in esso i simboli del rovo ed il color verde); due grandissime iniziali del nome di Maria in metallo dorato, sormontate da corone di egual valore, e destinate ai due lati dell’Altare Maggiore; una campana fusa e bella posta in ricordo, e benedetta la domenica antecedente la gran festa, intorno alla quale si legge la seguente iscrizione, che traduco dal latino: “Nel giorno in cui D. Giuseppe Izzo Vescovo, ubbidiente alla volontà del S. P. Pio X, impose il Diadema all B. V. del Rovo, questo sacro bronzo cantò ai fedeli oblatori le prime lodi della Vergine. A. D. 1908”; e poi fiori, fiori e fiori. E’ il giugno del 1909. Per tutta la città non si parla che del solenne prossimo avvenimento. Il Vescovo col cuore colmo di letizia, perché fatto da Dio degno di coronare la Madre celeste, invita quattro Vescovi e innumerevoli prelati ad assistere e partecipare. La domenica del 2 all’alba accorrono in folla fedeli da ogni villaggio; giungono anche da Maiori, Salerno, Baronissi, Fisciano. Alle otto arrivano i Vescovi, e si da inizio alla messa pontificale, nel nostro vastissimo Duomo, che è andorno splendidamente di drappi e di fiori. Da un lato dell’altare maggiore, di fronte alla cattedra episcopale, in alto, su di un trono maestoso, di mezzo a veli, ceri e profumi di rose e d’incenso, brilla la dolce Immagine a cui tutti gli occhi sono rivolti, tutti i cuori. Giunge il momento divino: il Vescovo dal suo posto si avvia all’altare, sale; le sue mani tremanti sollevano la corona d’oro, e la posano sulla fronte immacolata. La campana commemorativa da il suo primo amoroso saluto, le altre campane rispondono: sono due, dieci, cento voci armoniose, da tutti i campanili della città, vicino e lontano, è un coro vasto che per le colline e le valli si espande in un cantico immenso di gloria. E le bande suonano, mentre il popolo genuflesso con una fiamma viva negli occhi estatici, prega e grida osanna, come gli ebrei, quando agitavano le palme intorno a Giuditta vittoriosa. Il discorso alata e commosso di un Vescovo santo, le luminarie, i fuochi e le musiche la sera; la processione al pomeriggio per il borgo, prima di far ritorno al Santuario, quale Cava non vede che nella festa universale del Corpus Domini, con l’intervento di tutte le confraternite, mentre uno sciame di fanciulle tra veli e gigli, come angioletti, circondavano l’Immagine cantando, ed un fioccare di rosei e candidi petali dai balconi, dalle terrazze pavesate di drappi e arazzi multicolori, davano allo spettacolo la parvenza d’un sogno; i pellegrinaggi quotidiani diretti dai singoli Parroci con devozione fervida, e le rappresentanze per turno dei nostri ordini religiosi alla Messa solenne durante l’ottava; tutti gli altri sontuosi contributi del pio popolo nostro alla pomposità delle Feste, presi insieme, non possono equivalere quell’istante fuggevole, in cui la corona d’oro apparve sulla fronte di Maria, quell’istante, a cui avremmo voluto gridare “Fermati sei bello!”, quel divino istante, in cui tremarono i cuori, mentre il cielo s’apriva. E mi parve di vedere a piè dell’altare rapita in adorazione, la buona Gelsomina, sorridente e beata. Ma tu non eri là, o benedetta serva di Maria, tu assistevi dall’alto, visibile solo all’anima, che non ti oblierà mai.
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Non vorrei porre termine a queste bervi notizie, senza percorrere con voi i campi di S. Maria del Rovo, ed ammirare i frutti del giovane culto. – E ’ il pomeriggio di un giorno festivo: le vedete quelle giovanette, composte nell’aspetto e decentemente vestite, che a schiere si avviano alla loro Pia Unione? Esse sono la fiorente innocenza della campagna benedetta; salutatele figliuole di Maria. – E’ l’alba del giorno seguente: i contadini sono già tornati dai lavori interrotti, e si chiamano da lontano, augurandosi la buona giornata, come tanti fratelli. Ad un tratto la campana del Santuario manda la sua voce tranquilla, serena, invitandoli a levare la mente a Dio; e tutti si scoprono il capo salutando con affetto riconoscente la loro Madre. – E’ sera: nelle casette, qua e la sparse, incominciano ad attenuarsi gli allegri rumori della mensa frugale, mentre manda gli ultimi guizzi sul focolare la fiamma che si spegne. Il padre raduna dintorno a se la cara famiglia, che lo rispetta e l’ama, fa sedere sulle sue ginocchia il più piccolo dei figli, e con la sua mano callosa, segnandogli la croce sulla fronte innocente, da principio al Rosario, acciocché sulla sua casa vegli il patrocinio di Maria. Ditemi ora voi, la cui virtù è di cogliere il momento fugace del piacere, voi, la cui morale comanda di piegar docile il dorso alle passioni, e che vi adagiate nel presentare senz’altra cura, ditemi: “Non la invidiate voi questa candida pace, che aleggia, come velo rosa, fra terra e cielo? Sorgete dal fango, povere anime, a cui il vizio ha spezzato le ali “sursum corda”, e venite con noi a pregare S. Maria del Rovo, che risollevi anche voi su le colline dorate della speranza, di dove su le orme sue ascenderemo indubbiamente al Cielo. Noi intanto, compresi d’ammirazione per la buona madre, che ha voluto dimostrare la sua predilezione ai poveri agricoltori, offrendosi ad essi, qual’era al cospetto dell’Angelo a Nazaret, umile e semplice: riboccanti di gratitudine per le grazie, che Lei concede ogni giorno, ogni ora, intercedendo per i suoi devoti presso il trono della Divina Misericordia: pieni di stupore nella contemplazione di quella tela misteriosa, che ha voluto perpetuare accanto a se il cespuglio di rovi, e darci il più eloquente spettacolo della virtù fra le spine; sentiamo l’intimo bisogno di aprirci a Lei, versare nel suo seno i nostri dolori, le lagrime nostre, ed ottenere le dolcezze del perdono, la rugiada della grazia. E’ il mese sacro, è maggio. Mentre le campane vibrano trionfalmente sotto il cielo di primavera, e un mare di onde sonore si propaga per queste balze, portando ai villaggi più lontani il saluto di Maria; mentre un eco d’amore risponde da mille anime risalutando la Madre mentre le contadinelle vestite a festa offrono alla Madonna, in duplice omaggio, le belle rose colte nelle siepi dei loro campi, e quelle assai più belle spuntate nel giardino eletto dei loro cuori; e gli uccelli esultano nell’aria fragrante di mille profumi, e le farfalle d’oro si elevano aliando nella luce; mentre maggio ringiovanisce la natura, ed effonde la letizia nelle anime per mostrarsi degno di Maria, rassicuratevi, confidate; qualunque preghiera sarà esaudita. La intercessione di Maria qui esplicherà la sua onnipotenza, e le grazie ravviveranno nelle anime le sorgenti delle virtù. Accostiamoci dunque, frementi di giubilio e di devozione, a quell’altare, e preghiamo così:
Salve, o regina, o madre di misericordia,
o vita, o dolcezza, o speranza nostra, salve.
A voi gridiamo, esuli figli d’eva.
A voi sospiriamo fra gemiti e pianti in questa valle di lagrime.
Sù dunque o avvocata nostra, rivolgete
a noi quei vostri occhi misericordiosi.
E mostrateci Gesù, frutto benedetto dal
vostro seno, dopo l’esilio di questa terra.
O clemente, o pia, o dolce Vergine Maria.
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Salve regina – Eravate bella a Nazaret, della bellezza dell’innocenza, l’iride della pace vi tremolava dintorno con le sue luci variopinte, l’anima vostra era limpida dinanzi a Dio, come le acque di un lago dove si specchiano le stelle, e come le stelle brillavano, nel cielo purissimo di quell’anima, le virtù. Eravate bella, quando Iddio vi contemplò dal Paradiso, vi predilesse, e mandò Gabriele a recarvi il saluto dell’amore; e alle vostre umilissime proteste “Ecco l’ancella”, vi adombrò la virtù del Altissimo, e si ricongiunsero cielo e terra. Anche noi vi contempliamo bella sorridere con Gesù da quell’Immagine, ed anche in noi si accende una fiamma d’amore: per questo vi ripetiamo il saluto divino: “Salve, o piena di grazie, da ancella divenuta Regina. Regina in cielo, regina in terra, regina ora e sempre: possiate voi esercitare un impero così potente sulle anime ribelli, allacciare così tenacemente a voi le anime deboli, da divenire la regina di tutti i cuori. Quante volte noi vi abbiamo sognata nelle lunghe notti di quest’esilio, emergente da una nuvola di fiori, col sorriso di Dio: “oh, visioni di Paradiso!”e vi abbiamo invocata regina degli angeli e dei santi. Oggi però, estatici agli immensi prodigi della vostra bontà verso di noi, sgombriamo da ogni vanità le anime nostre, le apriamo al fiotto della vostra grazia, o Madre, e vi invitiamo; siatene voi la custode, siatene voi la regina. Umiliatevi a discendere in noi, come vi umiliaste in mezzo a questi campi, presso il povero roveto: sarà una delle vostre più splendide corone quella di regina delle anime vostre. L’angelo in ginocchio vi salutò: “Ave o piena di grazie”, e tacque riverente, senza pronunziare il nome soavissimo di Maria. Nemmeno noi prostrati nella polvere e inorriditi per i nostri mille peccati, nemmeno noi osiamo pronunziare quel nome, più dolce delle armonie dell’arpa angelica. Maria! Nome di grazie, perché in voi sola, creatura eletta, confluiscono i rivi della grazia celeste, come i fiumi del mare, illuminate la via alle anime naviganti per l’oceano della vita, verso il porto del cielo. Maria! Nome di dolore, perché richiama alla memoria l’intiera trama della vostra vita mortale, martirii supremi con Dio e supremo divino amore. Maria! Oh, finchè non sarò puro come un bambino, le mie labbra non profaneranno quell’adorabile nome; ed io qui, pregando, mi contento di invocarvi regina. Avete regnato con Gesù nella terra della desolazione, da Betlem al Calvario; regnate con Gesù nelle regioni della beatitudine: salve, o regina. Avete servito il Signore, eccelsa eronia della maternità, per restituire all’altissimo l’impero assoluto dell’amore: Egli riconoscente, vi ha rivestita di un manto più azzurro del firmamento, vi ha posato sulla fronte divina un diadema di stelle, e vi ha associata all’impero dell’universo: salve, salve, o regina. Io vi dono l’intelletto, regnatevi con la virtù, di cui siete fulgido esemplare; vi dono l’immaginazione regnatevi con la bellezza vostra, che è sintesi di tutte le bellezze eterne, capolavoro di Dio; vi dono il cuore sospiroso di felicità formatevi in esso un piccolo trono, e regolatene i palpiti all’unisono di quell’amore, che divampò in voi, inestinguibile come il fuoco del roveto simbolico di Mosè di quell’amore benedetto che produsse il miracolo della maternità nel seno verginale “salve, o regina”.
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Mater misericordiae – Nessun nome e più carezzevole all’orecchio di un figliuolo, che quello di madre. I primi sguardi che ci hanno sorriso da un volto adorato; i baci innocenti suggellati su la fronte, su gli occhi, su le mani, su le guance, su le labbra nostre di bambini nell’estasi dell’amore; la prima voce, che abbiamo udita chiamarci coi vezzeggiativi più dolci; i placidi sonni dormiti fra due braccia amorevoli, sul seno che ci distillava il latte della vita: tutto questo ci ricorda quel nome soavissimo, tanto caro. Quando però vi invochiamo così, o Maria, non è soltanto una dolcezza arcana, che ci inonda; ma un fremito scuote le intime fibre dell’anima, e le palpebre si abbassano sotto la rugiada del pianto. Salutandovi madre, quale scena lugubre mi si offre dalle alture del Calvario! Ansante, pallida, voi guardate sospeso ad una Croce il frutto unico delle vostre viscere. La folla, ebbra di sangue, rende più dolorosa coi suoi dileggi la vostra comune agonia; mentre Egli, il divin martire, volge uno squardo di compassione sul popolo crocefissore, perdona, ed a voi manda una voce flebile come un sospiro: “Donna (non più madre), ecco i figli tuoi”. Non ha detto tutto, ma la lagrima di carità, che gli brilla sull’occhio semispento, continua il suo pensiero interrotto: “Sono traviati, spargono il mio sangue, e continueranno a spargerlo coi peccati; ma mostrati ad essi Madre, moltiplica i miracoli del tuo amore, e salvali”. Avete sofferto assai o Maria; eppure li benedico questi dolori di Gesù e vostri, perché senza essi non potrei levare gli occhi al cielo, e chiamarlo Padre; ne potrei aprire le braccia, e, tremante di gioia, accorrere a voi, nascondermi fra le ali purissime dell’amor vostro, per cantarvi l’inno della maternità, che compatisce, perdona ed intercede. Mater inviolata, Mater intemerata, Mater amabilis, Mater admirabilis, Mater Creatoris, Mater Salvatoris: ora pro nobis. O invocazioni gaudiose, che glorificate la maternità mistica di Maria, a lei dai cuori dei giusti, che aspettano in palpiti l’ora della liberazione, per ascendere alla visione dei suoi trionfi; e volate anche dalle anime dei santi, come sciame di farfalle dorate, come nuvoli gigli e rose, fra le melodie del Paradiso. Ma io non sono ne giusto, ne santo; perciò nella vostra maternità non oserò meditare le meraviglie e le grazie: basterà al mio nulla invocarvi madre della misericordia. Non è vero che pel figlio, in cui più miserie si trovano cure più affettuose prodiga la madre? Ora nessun figlio è più miserabile di me, nessuna madre è più buona di voi. L’avete dimostrato con questo popolo di contadini, fra cui siete spuntata, qual giglio fra le spine, per trasformare la loro rozzezza in civiltà, diradarne le tenebre con la luce dell’Evangelo, raccoglierli in unione fraterna tra le pareti del Tempio vostro, e, spiegando su di essi il manto roseo della pace, guidarli nelle loro fatiche quotidiane, come l’angelo che accompagnava Tobia, condividerne le gioie ed i dolori, asciugarne i sudori e le lagrime, come una madre. Anche l’anima mia è uno spineto; spine i rimorsi, spine le passioni, spine le tentazioni, spine le sonnolenze accidiose, spine le perdite della grazia: fiorite, o giglio immacolato, anche nell’anima mia. Oh, come mi pento di non aver desiderato fino a questo giorno gli aiuti vostri! Ma la preghiera del figlio non giunge mai tardi al cuore di una madre, per essere esaudita. E la gioia celeste, che esulta in noi, mentre ci accostiamo implorando, al vostro altare, non è indizio di sicuro, che abbiamo trovato grazia presso di voi? O madre, o madre di misericordia!….
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Vita – In quale ora beata incominciaste a vivere nel pensiero di Dio? Prima dei secoli voi eravate, o Maria, prima dei fiori e delle stelle, prima cielo e del mare, prima dei monti e dei fiumi, prima del sole: la vostra concezione si nascondeva nei penetrali della Mente eterna, che vi vagheggiava come l’artista il suo ideale. Ma il peccato devastò la terra, accompagnato dalla morte. Si levarono allora i sospiri dei profeti, gementi nella pena crudele; e Dio commosso vi chiamò con invito d’amore: “Surge, dilecta mea, columba mea, et veni”; e voi emergeste come l’astro mattutino sul firmamento, e fra cori e le melodie dei serafini, per una vita seminata di rose, scendeste a trapiantare su i campi della morte l’alberi della vita. Il figlio vostro un giorno avrebbe promesso ad una Samaritana l’acqua saliente della vita eterna, e ne avrebbe scavato le sorgenti sul Calvario; ma in voi già fluiva tutta la grazia era questa l’essenza della vostra vita. Perciò fu un miracolo la concezione immacolata, miracolo della nascita da uno sterile seno, miracolo ogni ora della vostra peregrinazione fra i mortali mentre dall’altare dell’anima divina ascendevano al trono del Signore i profumi delle virtù, nuvoli d’incenso consumato dalle sacre fiamme dell’amore. Ora comprendo, perché voi o Gabriele, v’inginocchiaste sulla soglia della stanzuccia di Nazaret, voi che pure attraversate come un principe le auree porte del cielo. Ora so perché vi tremarono la labbra nel pronunziare il saluto dell’Incarnazione, dinanzi a quella bellezza che vi rapì nell’estasi, quasi dinanzi a Dio. Tutti i raggi della divinità li trovaste raccolti in Maria, che li riversava su di voi dal volto, in cui traspariva l’anima: in Lei spirava il soffio della più grande Vita. Qui, o Vergine, la mente si smarrisce, vedendo la vita vostra indissolubilmente intrecciata a quella di Gesù dalla stanzuccia dell’Annunziazione a Betlem, all’esilio, a Gerusalemme, di nuovo a Nazaret e poi nell’apostolato e poi…sul Calvario. Io riveggo la vita vostra agonizzare presso la Croce. Gocce di sangue stillano da quel volto, come la rugiada dal calice piegato di un fiore e i vostri occhi sono accesi di sì vivo spasimo, che la morte non può serrarli: la morte per la prima volta è vinta dal dolore. Oh, dovettero passare lunghi anni prima che voi moriste… no, prima che partiste da questa terra per raggiungere Gesù. Vita ineffabile, che espiaste colpe mai commesse, non la falce della morte venne a troncare il vostro stame prezioso; ma gli angeli posarono le dita di rosa sulle vostre palpebre stanche, e dalla terra del pianto, su veli di nuvole, vi trasportarono in anima e corpo in Paradiso. Lassù coronata regina siete divenuta dispensatrice di grazie, tesoriera della vita. Vivete sempre, o creatura piena di grazie, per la gloria di Colui che vi ha adornata di tutte le sue bellezze, divino Prodigo d’amore: vivete per la salute delle anime nostre, che a voi domandano le ali, con cui spiccare il volo a Dio: vivete per il trionfo della Chiesa, che molti vilipendono con le parole e con le azioni nefande: vivete oggi e sempre, per soccorrere quanti giungono in questo Tempio vostro ad implorare grazie, e per proteggere questo giardino di anime semplici, questi contadini che vogliono essere vostri, ed in mezzo a cui avete fissato l’umile dimora. Così la nostra esistenza trascorrerà sicura fra Dio e Voi, qui in terra, mentre ci guiderà la visione incantevole della vita eterna fra Gesù e voi nel Paradiso.
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O dolcezza – Io vorrei chiamare dinanzi alla vostra Immagine, incoronata di spine, tutte le anime, che corrono dietro ai miraggi lusingatori dei beni vani, assetate di felicità; e unito ad esse, qui nella solitudine, ascoltare il grido desolato di mille generazioni, che hanno cercato per secoli la fonte della dolcezza, e sempre invano. Poi vorrei interrogarli fraternamente: V’illudete di essere voi fortunati di questa moltitudine interminata, che geme su la tomba dei suoi ideali spenti, e si rammarica di avere per essi dimenticato Dio? Camminare senza un’ora di riposo: tale è la legge severa, tremenda, che a noi prescrive la Giustizia suprema: sempre avanti, finchè la cortina della morte non si chiuda l’orizzonte, e lanci l’anima nell’eternità. Quale eternità? Paradiso o … Inferno?… Ahimè! Se dunque l’esperienza dei secoli ci annunzia che il mondo è vanità e afflizione, chi sarà quello stolto che dimentico di Dio, continuerà a seguire la chimera, per aggiungere alle pene di questa terra un castigo senza fine? Felici coloro che, ricorrendo oggi a Maria, ne imploreranno i soccorsi! Essi saranno risollevati sulle alture della fede da cui sfideranno impassibili le vane larve, che li inseguiranno ancora. O Maria, è per queste anime che io voglio pregarvi, acciocchè le conquistiate a Voi, e tutte le loro brame siano appagate sul vostro materno cuore. Voi, dolcezza degli Angeli, che vi volano d’intorno a schiere, cantando nel regno della beatitudine; Voi, dolcezza dei giusti nell’esilio e dei santi nella patria, che si deliziano condividendo la grazia e la gloria vostra; siate ruscello di dolcezza anche per questi miseri, che a troppo dura scuola apprendono il mondo essere un deserto, e intanto ignorano che la gioia è in Voi. Essi subiscono un inganno fatale; ma voi potete farli ricredere solo con un sorriso, solo con una carezza materna. Operate il miracolo o S. Maria del Rovo, in questo giorno faustissimo, rendete loro dolce e lieve il giogo dei precetti evangelici, richiamate con voce di carità le pecorelle smarrite all’ovile. Possano le anime illuse venire all’Immagine vostra, e rimanervi mute, estatiche, adoranti, come una corolla che al zeffiro mattutino s’apre, ondula, tremula. Io sento una fiducia sicura di essere esaudito, specie quando guardo questo popolo vostro di agricoltori, così contenti nella povertà, solerti nel lavoro, rassegnati nel dolore. Che cosa manca ai grandi della terra, che nelle dovizie s’agitano irrequieti, senza pace? E quale tesoro possiede questa folla, che non porta sul volto traccia d’afflizione, anzi serena sorride come i suoi campi in primavera? Essi custodiscono gelosamente il talismano dei Santi, la dolcezza dell’amore vostro, o Maria.
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Spes nostra, salve – Non so perchè, o Madre, quando pronunzio questa parola soavissima, un languore celeste allenta la tensione nell’anima ed essa si abbandona placida su di un’onda saliete, che la porta lontano, nelle regioni dell’infinito. Che ne sarebbe di noi se ci obliasse l’Angelo della speranza? Eppure tante volte il peccato con l’impeto di un vento ci ha abbattuti: allora abbiamo guardato dalla polvere l’occhio di Dio, l’abbiamo visto adirato, e tremanti ci ha rigato le guance il pianto della disperazione. Ma un accento di compassione ci è pervenuto all’orecchio: Figlio, pentiti e spera; e voi siete discesa a consolarci, a perdonare, a riaprirci le porte di Dio. Benedetta madre! La nostra vita, anche se la consumassimo tutta in una fiamma di adorazione perenne, non basterebbe a pagarvi quel tributo di gratitudine, che si deve ai benefizi elargiti da Voi. Ma noi siamo ancora nella battaglia, anzi pare che gli assalti del maligno ci incalzino sempre più violenti di giorno in giorno; siate sempre per noi l’Ausiliatrice, l’iride vaga della speranza. Quando le visioni atroci degli abissi ci minacciano, confortateci, scoprendoci un lembo del Paradiso; quando le strida orrende dei dannati mettono i brividi nell’anima, accoglieteci dentro il vostro patrocinio, e parlateci della misericordia di Dio e dell’amore vostro. Da quella misericordia io spero assai, ma specialmente dal vostro amore: la misericordia di Dio tace, dove parla la giustizia punitrice; ma in Voi è un cuore che si nutre di carità e di perdono. Ecco perchè in Voi si riposa fiduciosa l’anima nostra come il pargolo che piega il capo in seno alla madre. Dice molto questo confronto di noi ad un bambino, di Voi ad una madre; eppure molto in esso manca per la comprensione perfetta del Vostro amore. Quante cosuccie il bimbo non domanda alla mamma, ed ella soffre nell’incapacità di poterlo accontentare? Ma da Voi si può sperare ogni bene, che tutto concederete con l’intercessione onnipotente presso il divino Gesù che Vi è figlio. Egli, quando posò sulla vostra fronte il diadema immortale, e Vi esaltò in premio delle virtù a regina dell’universo, Vi disse: Da quest’ora niente ti è impossibile, o Maria. Tutto dunque io spererò da Voi; e i santi mi confermano nella cara speranza “Se tu brami soltanto la salute del tuo devoto, egli non potrà mai perdersi”: vi diceva S. Anselmo; e S. Brigida estatica, udiva in una delle sue rivelazioni un tenero colloquio fra Gesù e Voi: Domanda, o madre ciò che desideri, poichè non può rimanere inesaudita la tua domanda: tu niente mi negasti in su la terra, io niente ti negherò nel cielo. Io però, temo di non sentire per voi una devozione adeguata a tanta carità di madre. Soccorretemi voi, o Maria, mentre i fedeli Vi festeggiano e Vi rendono grazie; datemi lo spirito di perseveranza, comunicate ad ogni atomo dell’essere mio una vibrazione d’amore; e la speranza non si dileguerà mai più, perchè una luce di paradiso brillerà nelle tenebre dell’anima, perpetua come la fiammella di questa lampada dinanzi a Voi. Oh S. Bernardo ripetetela a me la vostra parola consolatrice, che trovò troppo angusta la via della salute: Se segui Maria, non devierai; se pensi a Maria, non ti verrà meno la speranza. Col suo sostegno non cadrai; con la sua protezione non temerai; con la sua guida non ti affaticherai; sia Maria con te, e giungerai. Dove, dove? Avremo dunque il Paradiso, la gloria senza pericoli, la bellezza senza macchia, e l’avremo per sempre dalle mani di Maria? O gioie purissime di splendori, di armonie, di cantici celestiali, mentre i cori angelici passano, roteando come astri d’intorno a Gesù ed a Maria! O visioni, dove la divinità si svela! Madre, per carità, segnatemi voi il cammino su l’erta faticosa dell’esistenza, ed io obbediente Vi seguirò, cantando: spes nostra, salve.
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Ad te clamamus – Un giovane infelice mi ha narrato una pagina della sua storia. La sua vita disordinata e randagia l’aveva fatto precocemente invecchiare, e si trovava smarrito in una notte caliginosa, senza fede e senza speranza. Chi lo attirò in queste quiete contrade? In sul tramonto visitò il vostro Santuario cercando pace. Il Sacerdote ricordava dall’altare le grazie vostre, o Vergine del Rovo, ai buoni agricoltori; e quel cuore sanguinante ascoltò. Il veleno, che a goccia a goccia era filtrato nell’anima sua, si diluì in un mare di dolore; s’inginocchiò e pianse. Il Sacerdote cessò di parlare, ed un coro di voci infantili rispose, ora tenue e languido, ora alto e solenne, inno di gratitudine, di speranza, d’amore; e l’infelice visitatore pregò col popolo fedele, mandando a Voi il grido dell’anima rediviva. Egli ora è tutto di Voi, o Maria del Rovo; e quante volte Vi visita, si sente di nuovo rapito in ispirito di amore, gli tornano le lagrime del pentimento sugli occhi, e i propositi santi nella mente restituita alla fede. Ciò mi è stato un giorno raccontato da lui stesso, fraternamente, ed io in questo povero libricciuolo ne conservo la memoria, acciocchè quanti avranno bisogno di tali grazie, venissero come lui a pregarvi, o S. Maria del Rovo.
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Exules – Noi siamo esuli: tutto quello che domanda l’essere nostro, non può darlo la terra dell’esilio. Quali ricchezze hanno mai saziato l’avaro? Altri tesori noi cerchiamo, il mondo non possiede. Quale scienza ha mai soddisfatto il sapiente? “Io non sono più savio perchè so di ignorare”: diceva il primo fra tutti i savi. La scienza di quaggiù è troppo poca cosa per la nostra sete inestinguibile. Quale amore ha mai colmato il vuoto incommensurabile di un cuore? Quale impero ha mai accontentato l’ambizione di un Cesare? Misera terra dell’esilio, ti riconosciamo purtroppo, arida come uno scoglio per le nostre labbra assetate dell’infinito. La felicità la intravediamo, la rincorriamo; ma, nel toccarla svanisce. Oh inganno perpetuo della vita d’esilio, dove spesso ci illudiamo dietro un pallido riverbero della patria felice! Non habemus hic manentem civitatem “Solo Dio!”: era l’esclamazione prediletta di un santo. O Maria del Rovo parlateci di Dio e della patria nostra. Io non so che sia, ma solo nella penombra di questo tempio sento così intenso il desiderio di quelle meraviglie, in cui ci inebrieremo, di quei giardini dove noi, poveri bruchi striscianti sulla terra, spoglieremo la tunica della tribolazione, e indossando la veste nuziale, correremo incontro allo sposo eterno. Ci pensa l’esilio? Leviamo gli occhi a Voi, crediamo, speriamo, amiamo, e si ridestano le forze assopite per continuare in pace la nostra vita. Ci affanna il faticoso viaggio? Preghiamo voi, guardiamo il Cielo, e l’anima appassita s’aderge franca e vigorosa. Filii Evae – Voi, o Maria, siete tutto per noi nell’esilio, perchè ci ridonate la grazia di Gesù, che come figli di Eva e come peccatori avevamo perduta. Il Signore condannò Eva a partorire gli uomini nel dolore “In dolore parturies Filios”: ma essa comunicò anche a noi il triste retaggio del peccato. Voi invece, pur partorendoci come Eva nel dolore, beveste innocente con Gesù l’amaro calice delle colpe umane, e ci restituiste alla grazia ed alla gioia. Eva fu principio di maledizione; Voi origine di benedizioni: Eva torrente di amarezze, Voi fiume di felicità: Eva progenitrice della morte e della disperazione eterna; Voi madre della santità e della vita eterna: Eva ci scava i cupi baratri dell’inferno; Voi ci riaprite le porte del Paradiso. Oh, non vogliamo dirci, non siamo più figliuoli di Eva; Voi sola siete la vera madre nostra, o Maria.
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Ad te suspiriamus gementes et flentes in hac lacrimarum valle – Dal deserto salgano a Voi i sospiri delle anime devote, che ansiose aspettano l’ora di raggiungervi nei cieli, e si lamentano, languide di passione, con le parole di Davide: “Ahimè che il mio esilio si è prolungato!” Anch’io aspetto com’esse, e sospirando v’invoco coi nomi più dolci, che la chiesa ci abbia insegnato a pronunziare: “Specchio di giustizia, sede della sapienza, origine della nostra letizia, rosa mistica, arca dell’alleanza, porta del cielo, stella mattutina, salvezza dei deboli, rifugio dei peccatori, consolatrice degli afflitti, deh, che presto venga a liberarmi l’angelo della morte! Non è pusillanimità, o Maria, che mi chiama sulle labbra una tale preghiera, ma è ardenza di amore. Anche Voi, quando Gesù tornò nel suo regno, e rimaneste sola nell’esilio anche Voi pregaste di rivedere presto lassù il Figlio adorato, per riabbracciarlo e perdervi in un estasi ineffabile di contemplazione eterna. Voi mi leggete nell’anima, o Vergine del Rovo, e conoscete che io voglio addossarmi le inevitabili miserie di questa vita. So che debbo versare il sudore della fronte per guadagnarmi il pane quotidiano e porterò lieto il peso del lavoro. So che il dolore è lavacro e salutare, da cui l’anima sorge purificata e ritemprata so che il Signore visita i suoi con le tribolazioni, e me le abbraccerò come doni e grazie. So che bisogna perdonare le offese, sacrificarsi per gli altri, operare sempre con rettitudine e purità d’intenzione, mai vincolare il cuore negli affetti delle creature; e cercherò d’ora innanzi, meglio che pel passato, di osservare questi difficili doveri. Ma l’amore che apre le ali per volare a Voi…………Chi può frenare la veemenza dell’amore? Oh, consentite, o buona madre, che almeno qui, ai piedi della vostra serena Immagine inghirlandata di spine, vi apra il povero cuore, sospiroso, in palpiti, coronato anch’esso di spine, quelle della lontananza da Voi. Io Vi amo, o Madre: possano i miei sospiri riuscire a Voi graditi, quale olocausto d’amore. E se è destinato che io debba rimanere altro tempo lontano da Voi, almeno concedetemi che persistano in me sempre saldi questi propositi, e che attinga nella vostra devozione energia per osservarli, imitando gli abitatori dei vostri campi o S. Maria del Rovo. Ma hanno anche un altro motivo i nostri sospiri, oltre a quello di raggiungere presto Voi e Gesù. Non è vero che possiamo confessarvelo ingenuamente? Voi ci perdonate, Voi ci siete madre. Passano dei giorni assai tristi sull’anima: fosca caligine ingombra allora il nostro piccolo orizzonte, e pare che il cuore gemente non sappia più cercare il vostro seno materno, e gli occhi, dopo averne il dolore spremuto tutte le lagrime, pare che non trovino più la forza di levarsi a Voi. Oh, chi sa dire l’amarezza di quelle ore angosciose nella valle delle lagrime? Definizione vera e tremenda della vita: valle di lagrime! Ora è una malattia che colpisce noi, o alcuno dei nostri cari; ora è la morte che ci priva di un amico, di un fratello, di un padre; ora è un’agiatezza che ci costava anni di fatiche, e che in un istante solo si perde, ora è un amore che ieri ci guidava ancora per mano col sorriso di un angelo, e troppo presto si è svanito. Ora sono i travagli, che siamo condannati a soffrire per sostentare la vita; travagli per soccorrere i bisognosi nel corpo e nello spirito; anche a costo di privazioni e sacrifizi; travagli nel difendere la religione santa dagl’insulti di chi la rinnega, specie se questo nemico della fede dorme sotto lo stesso tetto, e ci è caro assai. Ora sono peccati commessi che ritornano alla memoria, e ci stringono nelle tenaglie del rimorso, mentre scorrono su di essi le lagrime, il sangue espiatore dell’anima; ora è la paura di ricadervi perché sentiamo nuovi fremiti nello spirito, prodotti dalle passioni che rifiutano di servire, e si preparano alla riscossa; ora sono brividi per l’imminente pericolo, rivedendo minacciose le ombre delle tentazioni. Ora è l’ingratitudine pagataci in ricambio dei benefici; ora la virtù conculcata, mentre il vizio trionfa; ora è l’ingiustizia penosissima del mondo, o la falsità dei giudizi degli uomini, o il disprezzo alternato con l’adulazione su le labbra di chi si dice amico. Sicchè triboli e spine dappertutto, fiele continuo di cui si abbevera l’anima nella famiglia, nell’esercizio dei nostri doveri, nella società, nelle memorie del passato, nei presentimenti dell’avvenire, nella battaglia del presente: valle di lagrime! I nostri sospiri due grazie impetrano da Voi senza di cui ci abbandoneremmo alla tristezza e perderemo quella che S. Agostino chiama l’utilità della nostra miseria. Anzi tutto dateci lo spirito di sacrifizio, che vi sorresse in tutta la vita, e specialmente a piè della Croce: così, inerpicandoci anche noi sul Calvari, ci affratelleremo a Voi, sudditi del dolore intorno alla regina del dolore; e Gesù ci dirà come a Disma, da colpevole divenuto santissimo penitente: Oggi…… con me…… nel Paradiso! E un’altra grazia vi domandiamo. Il pianto è abituale su gli occhi nostri; ma è vero ed inconsolabile, solo quando sono colpiti i nostri interessi temporali: o affezioni spezzate dalla Provvidenza, o rovesci di fortuna, o capricci contrariati, o dignità perdute. Si piange per dispetto, si piange per collera, per iscoraggiamento, per una sensibilità morbosa; ma la lagrima del pentimento è troppo rara, e s’inaridisce troppo presto. Ora noi, o Maria, imploriamo lo spirito di rinunzia a quanto sa di mondo, per non piangere se non le offese a Dio e la grazia perduta coi peccati. Esauditemi, o madre; che possa io, come S. Agostino, riottenere la santità perduta, per l’intercessione di una madre. Se sarà così, io vi prometto che consacrerò tutto il resto della mia esistenza a glorificare Gesù vostro, ed a rendervi grazie. Torneranno le tribolazioni, le tentazioni, le passioni, le lusinghe del mondo: riaccenderanno la fornace di Babilonia d’intorno all’anima; mentre io proseguirò serenamente cantando. Allora potro dirmi fedele copia di Voi, o S. Maria del Rovo, che mi sorridete di mezzo alle spine: anch’io sorriderò a Voi dalla valle desolata, e amerò le mie spine, finchè non intristiranno, per rinascere rose immortali lassù…
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Eia ergo, advocata nostra, illos tuos misericordes oculos ad nos converte – Quale spettacolo sublime e commovente presentano tutte le età cristiane, che passano e si genuflettono dinnanzi a Voi, o avvocata nostra! Spose pregano per i loro consorti, che hanno perduto la fede: pargoli innocenti versano le loro prime lagrime sulle colpe dei genitori loro: orfani gemono senza vesti, senza pane, nella solitudine: madri plorano per i figli accorsi alle frontiere contro i nemici della patria, e madri agonizzano presso i cancelli di un carcere, dove il figlio traviato è chiuso, e bestemmia ancora: sovrani depongono il diadema nella polvere, e vi tendono le braccia, chiamandovi in difesa dei popoli e della civiltà: vergini sacre calunniate, giusti perseguitati, gigli di purità calpestati, sacerdoti disprezzati, missionari martoriati, tutti si raccolgono intorno a Voi, arca santa, usbergo invincibile, advocata nostra. E poi vengono a mille a mille le anime stanche, le anime deboli, le anime inferme, le anime penitenti, fronti che si prostrano, mani che si congiungono, labbra che mormorano una preghiera, fiori che auliscono di filiale amore. E Voi, colomba misteriosa, riapparite sulla vasta famiglia di Noè, voi, candida messaggera di pace spiegate il vostro patrocinio sui popoli, lasciando cadere in mezzo ad essi il ramoscello di ulivo, simbolo di una divina promessa. Gloria dunque a Voi, o Avvocata dei peccatori, per quante anime avete sottratte all’inferno, e per quanti santi avete donati al Paradiso. Gloria vi canta il Signore, contento di vedervi sublimata nei Cieli a così alta dignità, che innumerevoli anime sono restituite all’amor suo per Voi. Gloria vi cantano gli angeli, stupiti dalla meraviglia unica della vostra carità materna, in cui si specchia la divina misericordia, come il cielo nel mare. Gloria vi cantano tutte le chiese della terra fra i popoli più barbari ed più colti, sui monti, nelle valli, in riva al mare, sulle isole dell’ oceano, nei deserti, dappertutto dove un’ anima proclama d’essere stata beneficata da Voi o dove un cero o una tavoletta votiva attesta che Voi ci compatite e difendete la causa nostra, salvandoci dalla giusta ira di Dio. Gloria infine vi cantano questo caro Santuario e questi buoni agricoltori che da Voi ricevono un lume di grazia e di civiltà, e da cui vi offrite porto sicuro, mentre rumoreggiano lontano i marosi del vizio e dell’ incredulità. Vi siete qui presentata umile agli umili proprio come Gesù ai rozzi antichi pastori: la culla del Bambino celeste fu in una grotta, fra i campi e le selve di Betlem: la culla del vostro culto in mezzo a noi è stata ugualmente povera, fra campi e selve presso una macchia di spine; gli umili sono accorsi a voi dai loro casolari, si sono rifugiati sotto il vostro manto e con sudori e privazioni inaudite vi hanno eretto questo Tempio, che ricorderà ai posteri più lontani un’altra vittoria della vostra generosità e della fiducia nostra. Non si è mai udito che un infelice siasi presentato ai vostri altari con la morte nel cuore, e non se ne sia tornato esultante per la vita riottenuta. Voi vi commuovete alle sventure nostre, dimostrando una sollecitudine senza pari nel perdonarci e soccorrerci. Voi sapete stilare sulle labbra aride il latte della grazia, guarirci per mano sul sentiero della virtù, piangere alle lacrime nostre, come una madre, più che una madre. Voi ricordate al figlio divino quanto avete patito con lui e per lui, e, operaia dell’ Evangelo, domandate al signore la vostra mercede. Quale mercede? O avvocata nostra, il perdono per i figli della colpa, il Paradiso per tutti, questa è la mercede domandata da Voi. Davide era adirato col figlio ingrato Assalone; ma una donna intercedette, ne descrisse lo stato miserando al cuore del padre, e ottenne perdono. Così Voi con eloquenza di madre, esponete innanzi al trono dell’Altissimo la fiacchezza dell’ umana natura, il mondo lusingatore, le mille occasioni, le insidie del maligno, il cattivo esempio, le tentazioni: come resisterà il buon Dio, quando nel guardare quel seno, da cui ha succhiato il latte lo vedrà irrigato di pianto, e udirà dalle vostre labbra, che l’hanno baciato: “Padre, Figlio, Sposo, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”; come resisterà a Voi, o avvocata nostra potentissima, indulgentissima, amorevolissima?…
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Et Iesum, bendictum fructum ventris tui, nobis post hoc exsilium ostende – O Maria del Rovo, mai ho sentito tanto desiderio di Gesù, come or che lo vedo nelle vostre braccia, appoggiata la fronte sul vostro cuore. Non è forse la divina grazia, che mi parla nell’intimo? Io odo un cantico soave, un coro lontano di voci angeliche: “Cammina cammina, o esule; tu non ti affaticherai sempre, ma perverrai un giorno nella patria dell’infinito. Cerca cerca, o esule; tu non domanderai sempre, ma troverai un giorno le sorgenti dell’Infinito. Lavora lavora, o esule; le tue fatiche non saranno eterne ma riposerai nei giardini dell’Infinito. Lotta lotta, o esule; i tuoi nemici non ti assedieranno sempre ma trionferai un giorno nella conquista dell’ Infinito. Soffri soffri, o esule; tu non gemerai sempre, ma la tristezza sarà mutata in gaudio nell’infinito. E prega Maria: lei possiede le chiavi della Misericordia, solo chi prega lei valicherà le porte dell’Infinito”. Quell’ Infinito è il regno dei Cieli, quel regno è la vera vita, quella vita è Gesù; o Maria, dopo l’esilio mostrateci Gesù. Quanti altri anni debba vivere io non lo so, ne bramo saperlo: benedico da adesso le gocce di sudore, che fino all’ ora estrema scorreranno dalla mia fronte, sicuro di vederle mutate in perle, di cui si adornerà l’anima divenuta degna di contemplare l’Amore mio, “Ut videam!” esclamerò con l’esule Assalone, “Che io vegga Gesù!”. Quante altre stille di sangue pioveranno dai miei piedi, attraversando gli spineti dell’esilio, io non so, ne bramo saperlo; proseguo contento e le benedico. Benedico le lagrime che ho versate e quelle che verserò, le offese che ho perdonate e perdonerò, le preghiere, le opere di carità, i sacrifizi che mi propongo di compiere: saranno tante rose coltivate nella valle del pianto, con cui intesserò ghirlande per offrirle all’Amore mio. Ma Voi, o Maria del Rovo, esaudite i sospiri dell’anima ardente di passione celeste, mostrateci il frutto del Vostro seno “Ut videam – Che io vegga Gesù!” Oh, bellezza sempre antica e sempre nuova del mio Gesù, mille volte Vi ho visitato nei vostri Tempii, Vi ho contemplato, Vi ho adorato; ma eravate umilmente velato dal manto mistico delle specie sacramentali ed a me è stato negato quel che anche a Caifa e a Giuda fu concesso: la visione dei vostri splendori divini trasparenti attraverso la umanità. Mille volte mi sono cibato delle vostre carni immacolate; ma l’anima non del tutto degna, s’è lasciata sfuggire i momenti preziosi e non ha saputo assimilarsi la vita vostra con cui si sarebbe assicurato il possesso della grazia e della virtù. Quando però sarà giunta l’ora della liberazione “vibedimus” non più velari dinanzi alla mente; essa vi vedrà sfolgorante di luce e di amore, o Dio mio, fra gli angeli e gli eletti, che vi glorificano: “ Santo, Santo, Santo…possedemius” non più pericoli di inferno e di passioni; l’anima ne verrà a Voi, come la colomba al suo nido, sicura, tranquilla, monda, casta, santa, sospirando: “Eccomi, o Gesù accoglimi nel regno tuo, nei tuoi amplessi di carità, deponi il tuo bacio sulla mia fronte per suggellarvi la beatitudine; io t’amo, io sarò tua per sempre”. “Gaudemibus”, non più gemiti nell’eternità della gloria; il vostro nome, o Gesù, ci salirà dal cuore sulle labbra, dolce come un favo di miele, e pioveranno dagli occhi vostri scintille divine che alimenteranno nel cuore le fiamme di carità, e fluirà dal vostro trono un’onda di grazie, da cui saremo inebriati. Valica celere questo mare della morte, o navicella dell’anima mia; sia tu stella polare, gonfi le tue vele d’amore la sacra devozione di Maria, e rassicurati. Tu sorvolerai libera i frutti; tu non guarderai, non ubbidirai, non bramerai quel che ti si offre dalle rive del vizio; e toccherai i lidi raggianti, dove, ignara della morte, incomincerai una vita senza macchia, senza dolore, senza ansie, dinanzi a Gesù che avrai servito ed amato. Gli Angeli di lontano ti scorgeranno dai colli fiorenti della terra promessa, e ti correranno incontro come ad una sorella, e ti saluteranno, come salutarono Maria: “Jam hiems transiit, imber abiit – L’inverno è cessato, le bufere son passate, intorno a te aulisce l’eterna primavera”. Essi ti abbracceranno, e ti accompagneranno al cospetto di Gesù. O momento sospirato in ogni giorno, in ogni ora della mia vita, o Gesù o Paradiso! Io vorrei dirvi come Davide: “Ostende faciem tuam – Rivelatevi a noi dopo l’esilio”; ma temo di non essere esaudito, perché vi ho offeso. Voi però, o Maria, mi mostrerete Gesù, perchè perdonate sempre. Pregatelo dunque, o Madre sua e Madre mia; ricordategli che egli ci chiamò fratelli, quando si addossò la croce per noi. Il divino Gesù vi esaudirà perchè è frutto del Vostro seno. O Vergine, che da un trono di rovi avete voluto infondere nei cuori semplici di questi contadini la speranza, che li fa lieti fra i travagli e la povertà, anche nell’anima mia è un roveto: scendetevi, o pietosa Madre, e ricomponete le facoltà disarmonizzate dello spirito in una sola vibrazione, in un solo desiderio ineffabile: vedere Gesù. Con l’aiuto vostro, o Maria del Rovo, i miei occhi siano d’ora innanzi casti nella speranza di vedere Gesù, il mio intelletto sia sgombro da ogni errore nell’ansia di conoscere meglio Gesù, il mio cuore sia puro ed in palpiti pergustare nel cielo le ebbrezze dell’amore di Gesù, le mie labbra siano immacolate e le mie mani prodighe di ogni bene, nella divina aspirazione di sfiorare i piedi santissimi di Gesù. O visione, o possesso, o gaudio, o estasi dell’anima nell’unione con Dio! O avvocata nostra, mille volte vi benedice l’anima mia.
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O Clemens, o pia, o dolcis Virgo Maria – Qui chiuderei la mia serie di preghiere, poichè già mi sento riconquistato all’affetto vostro. Le illusioni terrene ci nascondevano i monti della Beata Gerusalemme; esse intanto svaniscono, messe in fuga dall’aurora che risorge, e gl’ideali santi ritornano. O Maria, come il verde nei vostri campi, e rispuntano nell’anima le ali della speranza. Ma il mio cuore è inquieto ancora. Pur ora giravo gli occhi d’intorno, bramoso di comunicare agli altri la mia letizia; ed ho visto laggiù, poco lungi dal Tempio Vostro, pensosi tristi i cipressi del Campo Santo. Povero fratello, povero amico mio, povera madre! Vi avrei io dunque dimenticati in questo giorno gaudioso, se non mi avessero riscosso dall’oblio i fedeli compagni delle tombe vostre, gli alberi del dolore? E’ già tempo che non son venuto a genuflettermi tra i mesti fiori, all’ombra del salice desolato, per abbracciar quella lapide e versarvi lagrime e preghiere. Ingrata anima mia! Chissà quanti amari gemiti avranno emesso i miei cari dal carcere del Purgatorio; ed io, distratto dagli interessi del secolo, non ho pensato come alleviare le loro pene. Ahimè, che forse l’ingratitudine mia avrà aumentate le loro sofferenze! Oggi però non voglio separarmi da Voi, o Santa Maria del Rovo, se prima non avrò assicurato la grazia vostra ai cari defunti, che spesero la vita per noi. O Vergine clemente, ascoltate le voci interrotte dai singhiozzi, che salgono da quelle fiamme espiatrici: “Abbiamo visto il Signore nella sua gloria in mezzo ai serafini; ma non abbiamo potuto spezzare dai nostri piedi la catena, che ci tiene stretti a questo scoglio. Abbiamo sorriso con gli occhi e con l’anima al suo volto raggiante di felicità, ed Egli si è commosso; ma non ha risposto al nostro sorriso d’amore. L’abbiamo invocato coi nomi più teneri, di fratello, di sposo, di padre, domandando il bacio del perdono; ed Egli si è fermato, s’è inclinato su di noi; ma ci ha chiamati orfani, fino all’ora che sarà compiuta la purificazione. La bellezza della patria lontana ci attrae, l’ardente desiderio di raggiungerla chiama sulle nostre labbra grida strazianti; ma una macchia rimane sulla nostra fronte, per la quale Gesù adorabile indugia ad invitarci, ed intanto esclama: “Povero esule, soffri, tu non sei degno ancora”. O Santa Maria del Rovo, è questa l’ultima mia preghiera; quelle infrante dal dolore e assetate di Dio, sono impotenti a mitigare le loro pene. Mostrate la Vostra clemenza intercedendo per le derelitte presso Gesù. Ogni volta che c’incurviamo sull’orlo dell’abisso di pene, udiamo voci di pianto: Miseremini miei abbiate misericordia di me, almeno voi che ci giuraste affetto sulla terra – saltem vos amici miei. E noi ricorriamo a Voi perchè è ben poco quello che possiamo fare per soccorrerli. Ecco, noi promettiamo che dedicheremo ad essi le nostre opere buone, consacreremo ad essi le preghiere più fervide, daremo in loro suffragio i più aspri sacrifizi; e se è d’uopo riscattarli al prezzo del sangue dell’anima nostra, pagheremo noi, con vera gioia, il loro debito alla giustizia eterna. Ma Voi, o Maria, date efficacia alle nostre opere imperfette con l’onnipotenza dell’intercessione e della grazia. Essi fra i figli vostri sono i più infelici; cresca dunque la vostra clemenza in proporzione delle loro afflizioni: questo proverà che siete la più perfetta tra le madri. E siate pia! L’essenza della pietà è riposta nell’adorare Gesù; e questa virtù diffusiva richiede che anche gli altri partecipino alla stessa adorazione, perchè cresca la gloria di Dio. Ottenete quindi anche alle anime del Purgatorio di salire in cielo, ed essere felici nelle schiere interminabili dei Santi, di cui Voi siete regina. Siate infine dolce con quelle povere anime, o Maria; effondete copiosamente su di esse il sangue versato da Gesù sul Calvario, che raccoglieste nel calice perfetto del cuore Vostro, e di cui siete divenuta tesoriera. Consolate Voi, con le tenerezze di chi sa compatire i miseri. Carezzatele con uno sguardo di carità, quando ricordano con rammarico la vita passata, che non fu tutta spesa per Dio; o quando riflettono sulla loro vita presente, fra gli acerbi pentimenti e priva d’ogni bene, perchè lontana da Dio; o quando pensano all’avvenire, e sospirano, perchè non sanno l’ora in cui apparirà l’Arcangelo della liberazione. Voi, dunque, o dolce madre di Dio, correte ad alleviare quei tormenti. La nostra gioia sarà piena in questo faustissimo giorno, se la Chiesa purgante si accompagnerà alla Chiesa militante, e potremo tutti d’intorno a vostro altare levare le mani all’Immagine venerata, e cantare: “Salve, o regina dei miseri”; mentre gli abitatori celesti risponderanno dal firmamento: “ Gloria, o sovrana del Paradiso”.
Novena in Preparazione alla Festa e per chiedere la sua intercessione in ogni occasione
Deus in adiut: gloria.
1- O S. Maria del Rovo, in nome dell’ adorabile povertà di Nazaret, in nome dell’umiltà che vi rese madre di dio, degnatevi di ascoltare quest’anima mia, che implora soccorso. Oh, quante volte ci siamo ribellati alla legge del signore , obbedendo all’orgoglio e alla superbia! Ma voi, o buona madre otteneteci il perdono e l’amore santo dell’umanità. Sollevate le nostre miserie, ed insegnateci ad alleviare quelle degli altri. L’onnipotente, che vi è figlio, esaudirà la preghiera vostra, e noi saremo salvi.
3 pater , ave, gloria.
Dio ti salvi, o mia dolce Maria, Coronante di luce d ‘amore; non più spine al tuo vergine cuore, vivi e regna nel ciel con Gesù!
2- O S. Maria del Rovo, che vi offriste alla venerazione dei buoni figlioli del campi in una ghirlanda di martirio, noi intendiamo la simbolica parola materna: voi volete annunziarci che la vita è dolore, che le gioie sono al di la della terra; e quest’anima si piega docile alla divina volontà, perché vede voi soffrire da Nazaret al calvario, voi che pure foste immacolata. Ma otteneteci da GesùCristo la grazia della pazienza, senza la quale invano speriamo di veder fiorire su roveto del cuore nostro le rose della beatitudine.
3 pater, ave, gloria. Dio ti salvi, o mia dolce Maria, ecc….
3- O S. Maria del Rovo, che avete preferito rivelare alle anime semplici il titolo, di cui si è arricchita la corona di glorie vostre, anch’io la loro benedetta semplicità per implorarvi degnamente. A voi , cosi purada diventar la prediletta di dio, deve sembrare orrenda la fronte del vostro povero servo, decaduti dal trono della sua innocenza; ma a chi mi rivolgerò, se mi respingerà la madre mia ? riaprite i miei occhi, che la nebbia delle passioni ha chiusi alle visioni della speranza, e custodite con un aureola di candore l’anima mia, perché possa vedere dio ed amarlo sopra tutte le cose.
3 pater, ave, gloria Dio ti salvi, o mia dolce Maria, ecc…
4- O S. Maria del Rovo, che per amor del genere umano lasciaste nelle mani della Divina Giustizia il Frutto adorabile del vostro seno, e lo vedeste soffrire e morire per noi, anch’io fui redento da quel sangue prezioso; ma è già molto tempo che ho violato i diritti di dio e del prossimo; e il peso del rimorso non mi da pace. Perciò qui, op madre mia, a piè dell’altare dei vostri novelli trionfi, in ginocchio e a mani giunte, vi prego piangendo: possa io per voi le benedizioni del mio redentore, per evitare gli eterni castighi.
3 pater, ave, gloria. Dio ti salvi, o mia dolce Maria, ecc..
5- O S. Maria del Rovo, voi che vedeste perseguitato il bambino vostro santissimo, e fuggiste in Egitto, senza un’ombra di risentimento contro il tiranno ed i suoi servi perversi; o mitissima colomba, così dolce e compassionevole anche coi nemici di Gesù cristo, ah, quante volte travolto nei vortici della vita, dimentico i santi doveri assegnatimi dall’ evangelo! Oggi, però, che vi contemplo assisa amorosamente in mezzo ai mansueti agricoltori, come a Betlem tra i pastori, mi unisco con loro a cantare le vostre glorie, per ottenere anch’ io la virtù della misericordia e le benedizioni vostre.
3 pater, ave, gloria. Dio ti salvi, o mia dolce Maria , ecc…
6- O S. Maria del Rovo, voi che prima della solitudine del tempio di Gerusalemme, e poi nel silenzio della piccola casa di Nazaret, cercaste sempre la pace e non la smarriste, neanche quando Gesù vi condusse seco attraverso i triboli della sua vita apostolica, implorate per l’amina mia la grazia della pace. Se mi guardo d’intorno, trovo insidie alla mia vita cristiana; se mi contemplo nello specchio della coscienza, osservo come mi vanno corrompendo i vizi, che ospitai con amore, perché mi parvero belli; se levo gli occhi al cielo, vedo dio giudice, non più padre. Ahimè! Rendetemi la pace. O Maria: come in questo tempio cosi possiate regnare nel mio cuore e trasformarlo in un santuario di pace.
3 pater, ave, gloria. Dio ti salvi, o mia dolce Maria, ecc…
7- O S. Maria del Rovo, voi che vedeste Pietro piangere ai vostri piedi, e, commossa fin alle lagrime, gli usaste misericordia; voi che udiste dalle labbra dell’agonizzante figlio la parola del perdono per tutti i suoi nemici, usate misericordia a quest’infelice, che bacia la terra benedetta, dove siete discesa, dove il sommo pontefice ha voluto foste coronata regina. Sono indegno , perché tante volte il signore mi ha chiamato, ed io sono stato sordo agli inviti paterni. Ma voi che amate ancora: me lo dicono i vostri occhi dolcissimi ; per quell’amore dunque perdonatemi, o Maria.
3 pater, ave, gloria. Dio ti salvi, o mia dolce Maria, ecc…
8- O S. Maria del Rovo, voi che foste perseguitata, perché amavate la giustizia, e dal mondo ingrato, per cui vi immolate con Gesù, non riceveste che spine, liberatemi dalle tribolazioni, che trovo seminate nel mio cammino, o almeno ottenetemi la grazia di partire in silenzio per amor di Gesù e vostro. Così, quando i nemici flagelleranno quest’anima mia, e le imporranno un diadema di dolore, io seguirò con voi l’orribile dramma della passione di Gesù, e mi sentirò più veramente cristiano, perché somigliante a lui, al figlio vostro, o madre.
3 pater, ave, gloria. Dio ti salvi, o mia dolce Maria, ecc…
9- O S. Maria del Rovo, vi sono delle anime che soffrono più di noi, assai più, e che solo noi possiamo aiutare con i sacrifici e le preghiere: le anime benedette del purgatorio. Esaudite le loro suppliche, asciugate le loro lagrime, chiamatele alla gioia e alla gloria: lasciate per voi tra le spine, che cercheremo rendere meritorie con la pazienza; ma liberate le anime del purgatorio. Sono i padri nostri, sono le nostre madri, sono i fratelli nostri, sono i devoti che spesso vedemmo visitare questa immagine, coronandola di benedizioni: aiutateli, rivelatevi prima ad essi regina e madre.
Salve Regina……
Preghiera
O S. Maria del Rovo, come siete bella così, inghirlandata di spine, e coronata dal regale diadema di una gloria che non tramonterà mai sulla terra e nel paradiso! O giglio tra le spine, pronunziando l’adorabile nome, l’appellativo dolcissimo, l’invocazione sacra, il peccatore sente rinascere la speranza del divino perdono, il giusto s ‘infiamma di una più sicura vittoria sulle passioni, chi è afflitto, sente sul cuore le soavi carezze delle consolazioni celesti e della pazienza. O regina dei campi o regina degli umili, mi si velano gli occhi di pianto, ripensando alle grazie da voi impetrate per i miseri, che fiduciosi sono ricorsi al vostro patrocinio, e non invano, perché li avete benedetti. Benedite anche me, o madre mia. Io non vi chiedo beni temporali, i qual forse potrebbero nuocere alla mia salute eterna: non gli onori che svaniscono, non i piaceri che lusingano a passano. Desiderio, e con tutte le forze dell’anima innamorata imploro, di confermarmi alla volontà di Gesù cristo, giacché la fede viva nel cuore mi dice che egli vuole il mio bene. Porgetemi la soave mano materna, e guidatemi a lui sempre, allontanate tutti i pericoli che potrebbero distrarmi dell’unico bene; ma prima date al più umile fra i vostri servi la contrizione per piangere amaramente i peccati commessi. E pregate per me nell’ora della morte, nell’ora in cui saranno più terribili le insidie, più crudeli i rimorsi, ma più alta e viva la speranza in voi, o madre mia.
Canzoncina
In lode a S. Maria del Rovo
1- O Madre del Rovo, o mistica rosa, sorridi amorosa ai figli dal ciel.
Venite, o figliuole dei campi, portate corone a Maria, corone che l’anima pia intreccia coi fiori del Cor.
2- Sii tu generosa Di grazie divine A chi tra le spine Invoca mercè Venite, o figliuole…
3- Oh, se tra le spine Fiorissero i gigli! Son grandi i perigli, difendici tu. Venite, o figliuole….
4- Tra i rovi la fiamma Divampi, o Maria, e segni la via che ascende a Gesù. Venite, o figliuole….
Triduo
Per il triduo, basterà recitare gli ultimi tre numeri della novena con la preghiera finale che segue.
Appendice
Esponiamo alcune delle grazie esaminate dalla S. Sede, prima di approvare l’incoronazione di S. Maria del Rovo; ma dichiariamo fin d’ora che ad esse si deve la pura fede umana.
1- 1870- natale senatore di Aniello e Margherita Siani, di cava, era assai gravemente inferno di difterite. Già la pia, sconsolata famiglia gli aveva fatto somministrare gli estremi conforti religiosi, quando la buona margherita volle nutrire un’ultima speranza, e ricorse con gran fiducia alla Vergine del Rovo. Il giorno seguente l’infermità era scemata, e qualche settimana dopo la guarigione fu perfetta.
2- 1874- Biagio Senatore di Antonio e Maria Giuseppina Siani, cava, era stato attaccato dalla bronco-polmonite, la quale l’aveva così mal ridotto che il medico consigliò i sacramenti, prevedendo la prossima fine. L ‘ infelice moglie, guidata da una fede non comune ai tempi nostri, venne a pregar la sua madonna del rovo. Implorò e pianse; prese un po’ d’olio dalla lampada sempre accesa del santuario, e ne unse il petto dell’infermo. Di li a poco giunse il medico, e con meraviglia e meraviglia di tutti constatò i primi sintomi della guarigione, la quale dopo alcune settimane fu completata; e il convalescente poté uscire ed andare fino all’altare della vergine per ringraziarla.
3- 1870- la distinta famiglia di D. Giuseppe Civale, di maiori, dal 1870 in poi, ha sperimentato in molte occasioni la potente intercessione della ss. Vergine del rovo; ed un nobile documento della sua gratitudine è il magnifico altare maggiore in marmo pregevolissimo, eretto per sua magnificenza all’epoca dell’edificazione del tempio.
4- La nobile famiglia di cav. Michele Cirillo, di Cerignola, sempre ansiosa di significare la propria gratitudine a S. Maria del Rovo, per le numerose grazie ottenute, ha contribuito con offerte continue all’edificazione del santuario, all’acquisto degli arredi sacri, ecc..
5- 1901- il pio signore, D. Vincenzo Pisapia fu Alfonso, di cava, ha avuto sempre una fervida devozione per la ss. Vergine del rovo, ed ha trovato sempre aperto il cuore materno alla misericordia ed alla generosità. Un omaggio della sua riconoscenza è l’altare del cuore di gesu, edificato ed arredato sontuosamente da lui; ma omaggio più bello e più gradito è l’ara mistica, che lui e la sua famiglia, hanno eretta, nei penetrali dell’anima, alla buona madre.
6- 1890- per un egual motivo di riconoscenza ai benefici ricevuti, di fronte al cuore di Gesù, ed a destra dell’altare maggiore, l’ottimo generoso d’amico fu Lorenzo, di cava, fece costruire un terzo altare marmoreo, semplice ed elegante come quello del Pisapia; che, poi, il piissimo Gennaro Siani fu Vincenzo, di Passiano, adornò della grande tela di S. Giuseppe morente.
7- 1886- concetta lamberti di Antonio e Elisa Siani, di cava, aveva il figliuoletto Antonio infermo di idropisia. Preoccupata, chiamò vari medici, i quali d’accordo stabilirono di operarlo. L’esitazione della povera madre è indescrivibile, perché prevedeva sotto il ferro chirurgico una catastrofe; ed il presentimento delle madri talora è un vaticinio. Senza indugio corse con fede sicura a pregar presso l’altar della vergine del rovo: al ritorno era lieta, come chi ha lottato ed ha vinto. Quando giunse presso la culla, la trovò inzuppata d’acqua, poiché la madonna misericordiosamente avea operata la guarigione del fortunato fanciullo.
8- 1889- eugenia di marino di felice, di cava, era presso a morire per una bronco-polmonite, che l’aveva assottigliata in modo da sembrare uno scheletro. I medici avevano ceduto il posto al capezzale dell’infedele al sacerdote, che, dati gli ultimi conforti religiosi, si disponeva a recitare le preghiere per gli agonizzanti. Ad un tratto l’inferma con voce fievole chiamò la madre, la pregò di accostarle un immagine di S. Maria del Rovo, sospesa alla parete di fronte, e, baciandola affettuosamente, pregò e pianse. Oh, prodigi della fede! Quell’ invocazione fu esaudita, e la pia donna ora vive, esempio eloquente della potenza di Maria.
9- 1887- Anna Siani di felice e di lucia senatore, di cava, torturata dagli acerbi dolori di un parto difficilissimo, versava in serio pericolo di vita; quando atterrita al pensiero dei figli che lasciava orfani sulla terra, tese le mani ad un immagine di ss. Maria del rovo, implorando soccorso. La vergine, indulgente e pia, non seppe resistere alle lagrime di una madre; e con altra sorpresa dei medici fu ottenuta la grazia desiderata.
10- 1895- Marianna Criscuolo di Alfonso, di S.Arcangelo di cava, era domestica nella famiglia del signor fortunato Atina di Napoli. Durante la villeggiatura, la pia Marianna propose ai signori di accompagnarli per un’amena gita per i campi, e li condusse alla volta del nostro santuario. La curiosità e le esortazioni della domestica spinsero gli Atina ad entrare.A piè di quell’altare , levando gli occhi a quell’immagine, una dolce emozione commosse tutti, specialmente il signor Ferdinando, il quale pregò a lungo, e determinò di riconciliarsi con dio, dopo 36 anni d’indifferenza religiosa. Il dì seguente, nelle prime ora del mattino, ritornarono con vari amici, e assistettero devotissimamente alla messa, durante la quale il signor Ferdinando si comunicò. Da quel dì per il tempo residuo della villeggiatura, visitarono quasi quotidianamente il santuario.
11- 1900- Alfonso senatore di pasquale e di fortunata Siani, di cava, subì un’operazione difficile con lo strascico di una piaga, che da sei mesi non guariva. Disperando dei rimedi umani, si raccomandò alla b. vergine del rovo, chiese ed ottenne l’olio benedetto della lampada perenne, ne unse la piaga, e guarì poco dopo.
12- Andrea d’Ascoli di serino (Prov. Di Salerno), da 26 anni aveva perso moglie, e mai si era rivolto all’autorità ecclesiastica, per ricevere la benedizione dal cielo. Le premure del parocco, dei parenti, degli amici, ansiosi di vedere quello scandalo eliminato dal paese, furono inefficaci. Venuto a cava per affari, visitò il nostro santuario con alcuni amici, e nella sua mente si fece la luce. Di lì a poco. Dinanzi all’altare della madonna, ottenuta la debita delegazione, il rettore del santuario dopo la confessione e la comunione ne benedisse le nozze.
13- 1868- Vincenzo senatore fu Francesco Antonio, infermo gravemente di tipo, era vicino a morie. Povera vecchia madre! Con quanta fede venisti a piangere e ad invocare i soccorsi della SalusInfirmorum. La vergine si degnò di esaudire quelle lagrime, e l’infermo fortunato guarì senza convalescenza.
14- 1904- Antonio Palladino di Matteo e Antonietta capuano, di cava, era moribondo: un mal sottile lo consumava lentamente da anni, avviandolo alla morte. I poveri genitori ,vedendosi abbandonati dai medici della terra ,s’inginocchiarono dinanzi alla B. Vergine del Rovo ,e pregarono con viva fede .Dopo qualche settimana il figlio amatissimo era fuori pericolo, e guarì poi interamente.
15- 1904-Vincenzo Senatore di Raffaele e di Maria Antonietta Bisogno ,di Cava,mentre coglieva della frutta ,cadde dall’alto di un grande albero sopra alcune travi ,dove per poco non perdette la vita.La moglie Concetta Bisogno ,accorse alle grida con altre donne ,e,vedendo il marito che perdeva sangue ,gli apprestò subito fra le lagrime i primi soccorsi ;poi ne affidò la cura alle amiche ,e s’avviò al Santuario: ivi si raccomandò teneramente alla Madonna, pose in lei l’unica sua speranza, e ritornò a casa rasserenata, sicura della grazia .Rientrando, il marito l’accolse con grido di gioia: La Madonna mi ha fatta la grazia! La completa guarigione non si fece aspettare.
16- 1095-La fanciulla Luisa Novi, di Paolo e di Liduina Palladino, di Corbara, giocava spensieratamente presso un cancello di ferro, in fondo al viale del loro campo. I pilastri di tufo che lo sorreggevano, sia per vecchiaia , sia per gli urti ricevuti continuamente da un carro, che passava di la due volte al giorno, avevano perduto ogni consistenza, e da un momento all’altro potevano crollare. La fanciulla ingenua si appoggiò al cancello con le spalle, e spingendo cominciò a farlo girare sui cardini rugginosi. Come era da prevedersi, il cancello cadde, percuotendo con un angolo il petto della Luisa. L a madre sventurata, strappandosi i capelli gridando, volò a soccorrerla; e, mentre affettuosamente la sollevava sulle braccia andava dicendo: O S. Maria del Rovo, aiutala, soccorretela! La fervida preghiera fu esaudita, e la fanciulla fu salva.
17- 1905-Concetta Bisogno fu Giuseppe , moglie di Vincenzo Senatore, agricoltore nei dipressidel santuario era salita su di un albero a cogliere frutta, incauta e preoccupata di altri lavori che l’attendevano, non badò alla debolezza del ramo su cui aveva messo i piedi, e si spinse innanzi. Il sottile ramo si spezzò, e non diede tempo alla malcapitata di salvarsi. Lei emise un grido: Madonna del Rovo, aiutatemi! ; e cadde. La S. Vergine la esaudì: le vesti rimasero impigliate tra i rami sottostanti, e le diedero agio di aggrapparsi ad un solido sostegno, di dove la gente accorsa potè liberarla. Senza quell’aiuto celeste, la caduta sarebbe stata fatale, per un muro su cui sarebbe precipitata la povera Concetta.
18- 1889- Antonio Senatore fu Pasquale e di Fortunata Siani, di Cava, aveva sofferto abbondanti perdite di sangue per emorragia, ed il suo aspetto deperito, di colore cadaverico, non faceva prognosticare niente di buono. Molte pie donne fra conoscenti e persone di famiglia si lasciarono indurre dalle istanze dell’infermo, e vennero in pellegrinaggio a pregare la Madonna misericordiosa del Rovo. Alle suppliche devote seguì senza indugio la grazia, a dopo qualche settimana Antonio ripigliò le abitudini della sua vita operosa.
19- 1903-Rosina Siani di Antonio e di Rosaria Sorrentino, di Cava, avvertiva un acuto dolore alla lingua. Dapprima non vi badò che più che tanto, poi si lasciò osservare dalla famiglia: era una pustola, ce di li a qualche giorno produsse una piaga. Allora chiamò il medico, eseguì quanto egli prescrisse; ma la piaga si dilatava, e le sofferenze aumentavano. Il medico volle un consulto con gli altri colleghi, che determinarono di tagliare la lingua. Fu enorme le sgomento dei genitori della Rosina; mentre lei, fiduciosa in S. Maria del Rovo, disse: Sarà quel che vorrà la Madonna! Quando giunse il chirurgo, fu notato che la piaga cominciava a guarire. Fu rimandata l’operazione, nella speranza che se ne potesse far a meno. Non passò molto tempo che l’inferma fu guarita del tutto.
20- 1887-Rosa Siani di Felice e Lucia Senatore, di Cava, soffriva di un atroce dolore sotto il braccio destro; e dopo qualche giorno s’avvide con raccapriccio che vi nasceva un tumore. Tentò con i mezzi più elementari di farlo scomparire; ma esso ingrossò in modo da impedirle qualsiasi movimento del braccio. Poveretta! Chiamò il chirurgo, che subito prescrisse l’operazione. All’annunzio l’inferma ebbe un brivido di paura; però, devota com’era alla Vergine del Rovo, confidò negli aiuti celesti. Richiese un po’ d’olio della lampada della Madonna, ne fece ungere il fianco malato, e si addormentò in pace. La notte sognò d’essere andata nel Santuario, dove vide la Signora bella, che le sorrise incoraggiandola ad avvicinarsi. La buona Rosa le si gettò ai piedi, e le abbracciò le ginocchia: a quel contatto si destò, e sollevandosi avvertì che le lenzuola erano bagnate dal lato estro. Il tumore si era aperto naturalmente, e la sanità era assicurata. La riconoscenza per questa e per altre grazie ricevute negli anni antecedenti ha resa la pia donna così devota alla Madonna, che quel Santuario sembra un gioiello di nettezza per l’opera quotidiana di lei.
21- 1903- Il colonnello medico, Cav. Ferdinando Pasquali, ora defunto, Direttore del nostro Ospedale Militare, era infermo di una malattia che i suoi colleghi non sapevano definire. Il male peggiorava minacciosamente, e la famiglia era esterrefatta dall’avanzarsi del pericolo. Due gentil donne amiche si commossero a si grave schianto, e vennero a pregare S. Maria del Rovo . La loro fede fu premiata; il colonnello guarì.
22- 1884- Il Colera infieriva nella città e nei dintorni di Napoli, senza che la scienza e la carità umana potesse almeno attenuare la strage quotidiana inesorabile. La marchesa di Nicastro spaventata affidò alla protezione di Maria SS. Del Rovo la sua famiglia amatissima, e la Madonna esaudì i suoi voti. Quando le fu possibile di lasciare Napoli, venne nel nostro Santuario a ringraziare solennemente la celeste Benefattrice.
23- 1882- Lorenzo Rescigno, di Fisciano viveva quietamente con la famiglia, quando gli piombò addosso un fulmine a ciel sereno: la moglie cominciò a commettere stranezze, e poi diè di volta al cervello. Demente e pericolosa , fu trasportata al Manicomio. Lo sventurato marito, non potendo da solo lavorare ed accudire i figli, era avvilito. Ma una speranza lo riconfortò: aveva nella sua camera l’immagine di S. Maria del Rovo, ed ogni sera pregava coi figli per la sanità dell’infelice moglie. La Vergine esaudì la derelitta famiglia; e Lorenzo dopo una settimana, visitando l’inferma la trovò guarita.
24- 1990- Vincenza Benincasa fu Pietro di Dragonea(Vietri), era moribonda per una bronco-polmonite, che l’aveva celermente disfatta. Mentre il Sacerdote era al suo capezzale e ne confortava gli ultimi istanti, la figlia piangeva prostrata presso un’Immagine di S. Maria del Rovo, e nello slancio dell’implorazione offriva alla Vergine ciò che aveva di più caro, pur di vedere viva la madre. Chi non sa di che sia capace un figlio riconoscente per prolungare gli anni ad una madre vera? La buona figlia esclamava: O Madonna, anche se dovessi perdere la mia bambina, il mio angioletto, mi rassegnerei; ma senza mia madre non potrei vivere! E chi mi consiglierebbe? Chi mi benedirebbe? Come bacerei quella mano santa? Un velo di calma scese sul volto di quella vecchiarella agonizzante; poi di li a poco a poco cominciò a migliorare. Quasi contemporaneamente s’ammalò la bambina. Dopo non molto, questa volò al cielo presso la Vergine, in cui trovò una seconda madre, più potente e più amorosa, l’altra riacquistò il vigore e la santità; ed il voto fu esaudito.
25- 1994- Il 10 maggio, da S. Pietro, villaggio di Cava, venne un pellegrinaggio di contadini al nostro Santuario, accompagnati dal parroco D. Pietro Siani, per implorare l’Onnipotente intercessione della Vergine per la pioggia. Era un’arida primavera, per la prolungata siccità e per il continuo spirare del vento; le messi appassivano senza promessa di frutto, e si prospettava la miseria dei poveri agricoltori. Il parroco incominciò la S. Messa, e tutti in ginocchio l’ascoltarono pregando fervidamente. L’Immagine dellabuona Madre del Rovo era esposta in una gloria di luce, e sorrideva come una promessa. Oh, prodigiosa Madre! Il cielo si rabbuiò, e cominciò a cadere sui campi riarsi la pioggia fecondatrice, che continuò per tutto il giorno. La domenica successiva fu riorganizzato lo stesso pellegrinaggio, che venne lieto e riconoscente a render solenni grazie alla Vergine del Rovo. Quell’annata si ebbe un assai abbondante ricolto.
26- 1908- La sera del 30 maggio, la religiosa Maria Teresa Merola del Monastero di S.M. della Consolazione in Pregiato (Cava) cadde per le scale, spezzandosi il femore. Accorse il chirurgo, che le adattò subito un apparecchio conveniente, però con poca speranza di riuscire allo scopo per l’età più che inoltrata dell’inferma, 93 anni. Intanto, poiché il contatto dell’apparecchio dava molta molestia, Maria Teresa commise l’imprudenza di liberarsene. Quando ritornò il chirurgo a visitarla, ebbe giuste e severe parole di rimprovero per la poveretta, conchiudendo che, se prima era assai difficile la guarigione, ora era divenuta impossibile. Non si sgomentò la buona vecchiarella, e si affidò alla protezione di S. Maria del Rovo, promettendo di uniformarsi alla sua volontà. Lei diceva: vorrei guarire, solo per non essere di peso alle mie sorelle, anch’esse vecchie e sofferenti. La Vergine santa del Rovo la esaudì; ed ora Maria Teresa, sebbene sfiori il secolo, esce dalla cella, va a coro, scende per la comunione, come se non abbia mai sofferto.
Per non accrescere di troppo la mole del libricino ed evitare, la stanchezza in chi leggerà, interrompo la narrazione delle grazie, rimandando per le altre, che ho potuto raccogliere, all’archivio del Santuario, dove sono religiosamente custodite.
NOTA- Il valoroso giovane cavese, prof. Antonio Garofalo, contribuì al decoro della solennità indimenticabile dell’incoronazione con un quadro di S. Agnese per l’associazione delle figlie di Maria, che nel pio atteggiamento della santa, nel simbolismo eloquente della spada ai piedi, dell’agnello fra le braccia, delle rose sulla fronte, nella solennità del paesaggio romano, ispira devozione ed ammirazione. A lui la gratitudine sincera, profonda dei fedeli e nostra; la Vergine lo remuneri della generosità con cui ha offerto il prezioso dono.
Lettura Iconografica dell’Immagine di Maria Incoronata del Rovo
A cura del diacono permanente don Luigi Esposito.
Il termine “icona” deriva dal greco “eikon” che significa “immagine. Quindi quando parliamo di “iconografia, traducendo letteralmente dal greco, intendiamo scrittur
a dell’immagine. In greco infatti, i termini “dipingere e “scrivere” si rendono con la stessa parola: graphein. Nell’icona queste due forme espressive costituiscono un unicum. ed in effetti, parlando di iconografia intendiamo proprio uno scrivere in immagini, una narrazione che non utilizza la forma del linguaggio orale, ma quello visivo. La funzione di un icona è liturgica è pensata per la liturgia e ne è parte integrante.
Nella lunga genesi dell’iconografia cristiana, l’icona assume la propria fisionomia intorno al V secolo per la presenza nella Tradizione cristiana di numerosi ritratti della Vergine attribuiti a San Luca Evangelista e dopo la proclamazione del Concilio Ecumenico di Efeso del 431 del dogma di Maria Theotokos (Madre di Dio). Nella tradizione orientale sono stati affinati tre schemi: Madre di Dio Orante (senza Bambino) e i due in cui è rappresentata assieme a Gesù Bambino, le cosiddette “Icone dell’Incarnazione”: Madre di Dio Hodighitria (Colei che indica la retta Via) e Madre di Dio Eleusa (Immagine della Tenerezza).Un icona sacra ha come fine la preghiera, deve suscitare la meditazione di chi la contempla. L’antropologia cristiana antica, sulla scia del pensiero paolino indica l’essere umano costituito di tre dimensioni: corpo, anima e spirito (1Ts 5,73). Nell’icona queste tre dimensioni vengono evidenziate. Non si raffigura solo l’aspetto estetico dell’uomo, ma anche la sua realtà interiore che emerge attraverso la luce, l’illuminazione progressiva delle carni, la trasfigurazione del corpo. L’icona trasmette un particolare messaggio teologico, tutto parla il linguaggio del simbolo soprattutto attraverso i colori utilizzati dall’artista.
L’immagine di Santa Maria del Rovo, originariamente un dipinto su tela, opera del pittore Vincenzo Meccia, che si è ispirato all’ icona della Mater Domini, nel corso degli anni è stata oggetto di un grossolano restauro e fu incollata ad un tavola di legno, assumendo le caratteristiche praticamente di un vera icona. Tale icona è stata oggetto nell’inizio del 2014 di un capillare restauro, che l’ha restituita alla sua originaria bellezza. L’icona di Santa Maria del Rovo rappresenta Maria Madre di Dio Hodighitria, infatti è raffigurata con il Bambino Gesù sul braccio sinistro e con la mano destra indica il Bambino, la Via per la salvezza. La posizione frontale di Maria e del Bambino atteggiati con occhi fissi sull’osservatore in preghiera del quale incontrano lo sguardo, è il segno del vincolo espresso in questi termini da S. Giovanni Damasceno: “Per mezzo dei miei occhi carnali che guardano l’icona, la mia vita spirituale s’immerge nel mistero dell’Incarnazione”. Il mio cammino è aperto dall’immagine all’imitazione, così come la mia vita verso la divinizzazione. Il pallore del viso della Vergine rappresenta la sua innocenza e purezza, la tunica di colore porpora contornata in oro rappresenta la sua regalità, il maphorion (mantello) che le ricopre anche la testa di colore azzurro ne rappresenta la trascendenza e la divinità. Le tre stelle sul mantello all’altezza della spalla destra indicano la Divina Verginità di Maria prima, durante e dopo il parto. La tunica del Bambino di colore bianco indica la sua innocenza e purezza, il mantello di colore rosso-arancio indica la sua regalità. Nella mano sinistra il libro di colore verde è simbolo della vita creata, dello Spirito Santo che dona la Vita. Il Bambino con la mano destra alzata nell’atto di benedire con tre dita indica la Trinità. Lo sfondo dell’icona di colore bruno rappresenta la terra arata per ricevere il seme, l’umiltà. La scritta sullo sfondo indica il soggetto del dipinto la “ Mater Domini”.Le corone poste sul capo della Vergine e del Bambino indicano la regalità propria per il Bambino e quella donata per la Vergine.
San Giovanni Paolo II nella sua lettera apostolica “ Duodecimum Saeculum” del 4 dicembre 1987, in occasione del XII centenario del Concilio Eucumenico Niceno II dell’anno 787 che combattè contro l’iconoclastia, sottolineava “da alcuni decenni, si nota un recupero di interesse per la teologia e la spiritualità delle icone orientali; è un segno di un crescente bisogno del linguaggio spirituale dell’arte autenticamente cristiana. A questo proposito, non posso non invitare i miei fratelli nell’episcopato a «mantenere fermamente l’uso di proporre nelle chiese alla venerazione dei fedeli le immagini sacre» (Sacrosantum Concilium 125) , e ad impegnarsi perché sorgano opere sempre più numerose e di qualità veramente ecclesiale. Il credente di oggi, come quello di ieri, deve essere aiutato nella preghiera e nella vita spirituale con la visione di opere che cercano di esprimere il mistero senza per nulla occultarlo.
E’ questa la ragione per la quale oggi, come per il passato, la fede è l’ispiratrice necessaria dell’arte della chiesa. L’arte per l’arte, la quale non rimanda che al suo autore, senza stabilire un rapporto con il mondo divino, non trova posto nella concezione cristiana dell’icona. Quale che sia lo stile che adotta, ogni tipo di arte sacra deve esprimere la fede e la speranza della chiesa. La tradizione dell’icona mostra che l’artista deve avere coscienza di compiere una missione al servizio della chiesa.L’autentica arte cristiana è quella che, mediante la percezione sensibile, consente di intuire che il Signore è presente nella sua chiesa, che gli avvenimenti della storia della salvezza danno senso e orientamento alla nostra vita, e che la gloria la quale ci è promessa, trasforma già la nostra esistenza. L’arte sacra deve tendere ad offrirci una sintesi visuale di tutte le dimensioni della nostra fede. L’arte della chiesa deve mirare a parlare il linguaggio dell’incarnazione ed esprimere con gli elementi della materia colui che «si è degnato di abitare nella materia e operare la nostra salvezza attraverso la materia», secondo la bella formula di san Giovanni Damasceno. La riscoperta dell’icona cristiana aiuterà anche a far prendere coscienza dell’urgenza di reagire contro gli effetti spersonalizzanti, e talvolta degradanti, delle molteplici immagini che condizionano la nostra vita nella pubblicità e nei mass-media; essa infatti è una immagine che porta su di noi lo sguardo di un Altro visibile, e ci dà accesso alla realtà del mondo spirituale ed escatologico..Amatissimi fratelli, nel ricordare l’attualità dell’insegnamento del VII concilio ecumenico, mi sembra che siamo da essi richiamati al nostro compito primordiale di evangelizzazione. La crescente secolarizzazione della società mostra che essa sta diventando largamente estranea ai valori spirituali, al mistero della nostra salvezza in Gesù Cristo, alla realtà del mondo futuro. La nostra tradizione più autentica, che condividiamo pienamente con i fratelli ortodossi, ci insegna che il linguaggio della bellezza, messo a servizio della fede, è capace di raggiungere il cuore degli uomini e di far loro conoscere dal di dentro colui che osiamo rappresentare nelle immagini, Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, «lo stesso ieri e oggi e per tutti i secoli» (Eb 13,8)”. (Duodecimum Saeculum 11-12)